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Storie di fantasmi

Regia di Masaki Kobayashi vedi scheda film

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FABIO1971

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Storie di fantasmi

di FABIO1971
10 stelle

Nelle notti più oscure migliaia di fuochi spettrali volteggiano sulla spiaggia o si librano sopra le onde - pallide luci che i pescatori chiamano “Oni-bi”, o demoni di fuoco - e, ogni volta che si alza il vento, un suono di grida potenti si alza da quel mare, come il clamore di una battaglia”.
[da Lafcadio Hearn (Yakumo Koizumi) - La storia di Hôichi-senza-orecchie, tratto da Kwaidan: Stories and Studies of Strange Things, 1903]
 

Quattro "kwaidan" (ovvero le storie di fantasmi della tradizione giapponese) tratte, su ispirazione dei racconti orali del folklore locale, dalle celebri raccolte (pubblicate tra il 1900 e il 1903 e disponibili anche in italiano nella recente traduzione di Kappa Edizioni con il titolo Storie di fantasmi giapponesi) di Lafcadio Hearn, scrittore e giornalista di origini greco-irlandesi emigrato negli Stati Uniti e poi, dal 1890, trasferitosi in Giappone, dove si sposerà e ne acquisirà la cittadinanza cambiando nome in Yakumo Koizumi (dal cognome della moglie), adattate per lo schermo da Yôko Mizuki e messe in scena da Masaki Kobayashi a due anni di distanza dal capolavoro Seppuku.

I capelli neri (Kurokami)
Nell’antica Kyôto c’era un giovane samurai ridotto in povertà dopo la rovina del suo signore. Decise, così, di lasciare la sua casa e di entrare al servizio del governatore di una provincia lontana”. Il samurai (Rentarô Mikuni), accecato dall’egoismo, abbandona senza esitazioni la moglie (Michiyo Aratama) in lacrime (“Riguardati! Non posso vivere qui con te, ho un futuro davanti: per gli uomini la carriera è la cosa più importante, non posso rinunciarvi a causa tua, non posso seppellire qui il mio avvenire”) e si prepara a intraprendere il viaggio verso il villaggio del suo nuovo signore. “Il samurai non riusciva a comprendere il valore dell’amore. Per farsi una posizione divorziò dalla sua brava moglie e sposò la figlia di una famiglia in vista, che poi portò con sé nella sua nuova sede di lavoro. Fu l’avventatezza della gioventù e l’esperienza del desiderio”. Il ricordo della sua vecchia moglie inizia, però, a tormentarlo: “Il suo secondo matrimonio non si rivelò felice: la sua nuova moglie era egoista e insensibile e lui trovò subito ogni pretesto per ricordare con rammarico i giorni passati a Kyôto. Scoprì, quindi, di amare ancora la prima moglie, di amarla più di quanto avrebbe mai potuto amare la seconda e iniziò a capire quanto fosse stato ingiusto e ingrato. Il ricordo di una donna che aveva trattato ingiustamente, le sue parole gentili, il suo sorriso, i suoi modi squisiti, la sua pazienza irreprensibile non lo lasciavano in pace”. Finisce, così, a poco a poco, con l’isolarsi e perdere il rispetto della sua nuova compagna (Misako Watanabe), sempre più infelice e scontenta: intenzionato a fare ammenda per il suo deplorevole comportamento, il samurai decide, perciò, di partire alla ricerca della sua ex moglie. “Gli anni erano passati e il suo incarico era scaduto. Era il 10 settembre quando raggiunse la strada di Kyôto dove viveva la sua prima moglie: era mezzanotte e la città era silenziosa come un cimitero”. Torna nella sua vecchia casa, dove ritrova la moglie e, consapevole di meritare il suo odio, le implora di essere perdonato: lei quasi non crede ai propri occhi (“Perché dovrei pensare male di te? Ho pregato per la tua buona sorte giorno e notte”) e lo accoglie commossa dalla gioia di rivederlo. Il samurai le giura amore eterno (“A meno che tu non lo voglia, vivrò con te per sempre… per sempre! Niente ci separerà di nuovo!”), la abbraccia, le accarezza estasiato i lunghi capelli neri e ammira la bellezza del suo viso (“I tuoi capelli profumati sono gli stessi di prima… gli stessi capelli lucenti, gli occhi scuri, il naso grazioso, le guance morbide…”): poi trascorrono la notte nella camera nuziale, la stessa dove un tempo, per molte notti, furono felici e da dove, adesso, vogliono ricominciare una vita insieme. Al risveglio, però, il samurai trova accanto a sé una terribile sorpresa: della sua amata moglie sono rimasti, infatti, soltanto, i vestiti, un teschio e i lunghi capelli neri. Riprende, finalmente, coscienza e osserva inorridito e sgomento i resti fatiscenti della casa, abbandonata da tempo e ormai cadente. Quando inizia a comprendere, rimane solo, e vecchio, con la propria disperazione.


La Donna della Neve (Yuki-Onna)
In un villaggio della provincia di Musashi vivevano due taglialegna, Mosaku e Minokichi. Mosaku era vecchio e Minokichi, il suo apprendista, era un ragazzo di 18 anni. Ogni giorno si recavano in una foresta a pochi chilometri di distanza dal villaggio: un giorno molto freddo una forte tempesta di neve li sorprese sulla strada verso casa”. La bufera, violenta e implacabile, non concede tregua ai due taglialegna, che a prezzo di grandi fatiche riescono ad arrivare in prossimità del fiume che li separa dalla vallata in cui si trova il loro villaggio: “Il barcaiolo, però, aveva lasciato la barca dall’altra parte del fiume e quella non era una giornata in cui poter nuotare”. Si rifugiano, allora, in una capanna disabitata in attesa che si plachi la furia degli elementi: Mosaku (Jun Hamamura), accudito amorevolmente dal giovane Minokichi (Tatsuya Nakadai), è in gravissime condizioni, ma la sua sorte è ugualmente segnata per l’improvvisa apparizione di una misteriosa figura femminile, pallida e vestita di bianco, la Donna della Neve (Keiko Kishi), che pone fine alla sua vita soffiandogli sul viso e congelandolo, per poi volgersi verso Minokichi, intenzionata a riservargli lo stesso trattamento. Impietosita, però, dalla giovinezza del ragazzo, la spettrale presenza decide di risparmiargli la vita: “Non ti farò del male, ma se dirai a qualcuno, anche a tua madre, quello che hai visto stanotte, io lo saprò e ti ucciderò. Ricordatelo!”. Minokichi riprende, allora, il proprio cammino, riuscendo a tornare, ferito e ancora sotto shock per la tragica esperienza vissuta, al proprio villaggio, dove vive con sua madre (Yûko Mochizuki): “Passò un anno. Non appena si ristabilì, Minokichi riprese a lavorare: ogni giorno andava nella foresta da solo e ritornava dopo il tramonto carico di fascine di legna”. Una sera incontra una ragazza orfana, Yuki (Keiko Kishi), diretta a Edo in cerca di un lavoro come cameriera, a cui offre aiuto e protezione ospitandola in casa. Con il trascorrere dei giorni, i due giovani finiscono per innamorarsi: “E Yuki gli diede tre figli, bellissimi e dalla pelle molto chiara. Tra gli abitanti del villaggio ottenne la fama di essere una brava moglie”. Nonostante le tre gravidanze e il trascorrere del tempo, il fascino e la vitalità di Yuki sembrano non sfiorire mai ("Si mantiene giovane come il giorno in cui è arrivata al villaggio: è uno splendore!"): una sera, mentre fervono gli ultimi preparativi per le imminenti vacanze, Minokichi, ammirando innamorato la radiosa bellezza di sua moglie, crede di rivedere in lei proprio quella Donna della Neve il cui ricordo lo tormentò a lungo, ma a cui, passati ormai dieci anni, non aveva più ripensato. Incautamente, le racconta i tragici eventi accaduti durante quell'incredibile notte: "In vita mia", le confida, "non ho mai visto una donna bella e dalla pelle chiara come lei, eccetto te. Naturalmente non era un essere umano e io avevo paura di lei: era la Donna della Neve, affamata di sangue caldo, o era un sogno...". La risposta di Yuki, però, lo fa rabbrividire: "Non era un sogno: ero io. Io! Io! Era Yuki!". Infranta la promessa e tradita la fiducia della donna, Minokichi sprofonda nella disperazione: Yuki, che all'epoca lo aveva risparmiato per amore e che ora torna ad apparirgli nella veste inquietante della Donna della Neve, decide, però, di non ucciderlo, ma gli affida i tre figli e poi lo abbandona per tornare al gelo delle sue foreste.

Hôichi-senza-orecchie (Miminashi Hôichi no hanashi)
"A Dan-no-ura, nello stretto di Shimonoseki, fu combattuta l'ultima battaglia tra i clan Genji e Heike. Gli Heike vennero sconfitti e fuggirono a ovest: qui il clan perì insieme al loro imperatore bambino". La battaglia navale che sancì la fine del conflitto tra le due fazioni di samurai fu terrificante e si concluse con il sacrificio finale dell'imperatrice Nii, che, di fronte all'ormai inevitabile disfatta, si uccise gettandosi in mare insieme al figlio: "Non lascerò che il nemico mi uccida: accompagnerò Sua Maestà nell'aldilà". Da settecento anni dopo quegli epici eventi, però, le acque e le coste che furono teatro della battaglia, sono infestate dai fantasmi dei caduti: "Dopo che a Akamagahara fu costruito il tempio di Amidaji per consolare le anime dei samurai morti, accaddero molte strane cose". Nel monastero buddista ora vive Hôichi (Katsuo Nakamura), un giovane musicista cieco, che, accompagnato dal suono del suo biwa, allieta il suo pubblico narrando le storiche gesta degli antichi combattimenti che avvennero in quella zona: la corte imperiale fantasma invia un samurai (Tetsurô Tanba) affinchè accompagni Hôichi al proprio cospetto e rievochi per loro alcune scene della battaglia di Dan-no-ura. La comunità del monastero, intanto, è in allarme: sono convinti, infatti, che dietro alcuni misteriosi episodi accaduti nella zona (un cadavere rinvenuto sulla spiaggia, la nave di un pescatore affondata), ci sia l'opera dei fantasmi dei caduti. Il talento di Hôichi, nel frattempo, suscita l'ammirazione della corte del clan Heike ("Tu suoni benissimo il biwa e reciti la lunga storia degli Heike, che è composta da cento canzoni, ogni notte: Sua Maestà è molto soddisfatto") e viene deciso di uccidere il ragazzo affinchè si trasformi in uno di loro. Ogni mattina, però, al ritorno nel monastero, il giovane appare sempre più pallido e affaticato, tanto da indurre il sacerdote del tempio (Takashi Shimura) a ordinare agli inservienti di seguirlo durante le sue sortite notturne. Scoperto il suo segreto, Hôichi viene interrogato, apprendendo anche in quale luogo abbia trascorso realmente le sue ultime notti: "Non sei stato in una casa, ma in un cimitero! Quel posto è la casa degli spiriti dei samurai Heike: hai passato le tue notti tra le tombe!". Il fantasma del samurai, però, tornerà ancora, perchè Hôichi è ormai in loro potere: ai sacerdoti, per salvargli la vita, non resta che scrivere un testo sacro sul corpo del ragazzo e avvisarlo dei pericoli a cui andrà incontro se non seguirà alla lettera le loro istruzioni ("Lo spirito ti chiamerà, ma qualsiasi cosa succeda, tu non rispondere e non muoverti. Non parlare e stai seduto come se stessi meditando: se ti muovi o fai rumore, verrai fatto a pezzi"). All'arrivo del samurai, Hôichi resta in silenzio: "Vedo il biwa, ma del suonatore vedo solo due orecchie... Ecco perchè non ha risposto: non aveva la bocca per rispondere e di lui non sono rimaste altro che le orecchie. È molto strano: porterò quelle orecchie al mio signore per provargli che i suoi ordini sono stati eseguiti il più rapidamente possibile". Solo in due uniche parti del corpo di Hôichi non era stato scritto il testo sacro che avrebbe dovuto proteggerlo: al fantasma del samurai, perciò, non resta che tagliare le orecchie del ragazzo, lasciandolo a terra sanguinante. "Molti nobili si recarono al tempio con grandi doni in denaro: e così Hoichi-senza-orecchie divenne un uomo facoltoso".

In una tazza di tè (Chawan no naka)
"Anno 1900: dunque, nei vecchi libri giapponesi sono stati stranamente conservati alcuni frammenti di racconti di fantasia. Come mai sono stati lasciati incompiuti? Forse l'autore era pigro, forse ha avuto una lite con l'editore, forse ha lasciato il suo tavolino perchè è stato chiamato all'improvviso e non vi ha più fatto ritorno, forse la morte ha fermato il suo pennello mentre stava scrivendo una frase. Ma nessun mortale saprà mai dire perchè... Io scelgo un esempio tipico: successe oggi, 220 anni fa, il primo giorno del quarto anno dell'era Tenwa. Accadde a Capodanno durante una visita, quando il nobile Nakagawa Sado si fermò con il suo seguito in un tempio di Hongo". Durante la sosta, il samurai Kannai (Kan'emon Nakamura) vede in una tazza di tè l'immagine riflessa di un uomo. Poi beve ugualmente e, tornato a casa, si ritrova di fronte la stessa persona:
"Mi chiamo Shikibu Heinai. Oggi ti ho incontrato per la prima volta, ma sembra che tu non mi riconosca".
"Non ti riconosco. Dimmi come hai fatto a entrare in casa!".
"E così non mi riconosci?".
"No. Questa casa è sorvegliata attentamente a tutte le ore, nessuno può entrarvi senza essere annunciato".
"Non capisco come mai non mi riconosci. Questa mattina hai osato ferirmi!"
.
I due samurai iniziano a duellare, ma Heinai (Noboru Nakaya), colpito dalla katana di Kannai, svanisce nel nulla: il giorno seguente, Kannai, ancora turbato dall'episodio, riceve nel cuore della notte la visita di tre uomini che si presentano come servitori di Heinai e gli annunciano che il loro padrone tornerà presto per vendicarsi. Anche con i tre emissari affronta un duello impossibile, visto che scompaiono e riappaiono continuamente davanti a lui fino a farlo impazzire. Poi... "Qui il vecchio racconto si interrompe": l'autore (Osamu Takizawa) del libro non è in casa e il suo editore (Ganjiro Nakamura), venuto a felicitarsi con lui per il Capodanno, viene invitato ad attenderlo. Accomodatosi nello studio, trova un manoscritto sul tavolo di lavoro e inizia a leggerlo ("Riesco a immaginare molti finali possibili, ma nessuno soddisferebbe la tua immaginazione: preferisco lasciarti provare a decidere da solo le probabili conseguenze dell'ingoiare uno spirito"), poi, finalmente, scopre dov'era finito lo scrittore, che gli appare, terrorizzandolo, all'interno di una giara piena d'acqua.


Una tra le più imponenti produzioni nella storia del cinema giapponese, per la quale la Toho Company stanziò la cifra di 350 milioni di yen (salvo poi, esaurito il budget prima del termine delle riprese, annullare qualsiasi collaborazione futura con Kobayashi), martoriata dalla distribuzione internazionale, che ridurrà a poco più di due ore il minutaggio del film eliminando l'episodio La donna della neve, ma gratificata dal Premio speciale della giuria al Festival di Cannes del 1965 (oltre alla nomination per l'Oscar come miglior film straniero, poi assegnato a Il negozio al corso di Jàn Kàdar e Elmar Klos): affidato al solenne rigore e alla raffinatezza della regia di Masaki Kobayashi, magistrale sia per l’originalità dell’approccio che per la superba eleganza formale delle scelte stilistiche adottate, Kwaidan propone uno strabiliante caleidoscopio in cui amore, morte, paura, malinconia, rancore, vendetta e follia divorano i personaggi, consumati ossessivamente dalle proprie passioni e puniti dal materializzarsi di quelle soprannaturali esistenze che ne popolano le leggende più antiche. Anche quei pochi momenti in cui affiora un barlume di ironia in cui stemperare la spietata ineluttabilità del Fato (il destino di Hôichi nel terzo episodio) si colorano sempre di sfumature amare e dolenti, perchè la naturale enigmaticità di ogni arcano o ineffabile mistero finisce con il rivelarsi ai loro occhi come segnale di una fine imminente.
A partire dai magnifici titoli di testa, in cui i cartelli con i credits del film si alternano a getti di inchiostri colorati che si sciolgono e diluiscono sullo schermo, Kwaidan si snoda in un'esaltante successione di emozioni struggenti e malìe visive da cui lasciarsi travolgere: dall'incipit del film, forse tra i più evocativi nella storia del cinema fantastico, alla lancinante disperazione del samurai di I capelli neri, dall'incauta leggerezza con cui Minokichi precipita nel baratro tradendo la propria promessa (La Donna della Neve) all'ostinazione che condurrà alla follia il samurai Kannai (In una tazza di tè). E se la scrittura alterna con disinvoltura epica e lirismo guizzando spesso tra astrazioni simboliche e ardite stilizzazioni e servendendosi magistralmente, tra l'altro, delle forme e dei tempi del teatro classico giapponese, l'impatto visivo del film lascia senza fiato. La meravigliosa fotografia in Toho-Scope di Yoshio Miyajima e le straordinarie scenografie curate da Shigemasa Toda, infatti, propongono affascinanti cromatismi ed elettrizzanti commistioni pittoriche tra Oriente e Occidente, affiancando stampe d'epoca (Hôichi-senza-orecchie), espressionismo e cubismo (i cieli dipinti di La Donna della Neve, su cui campeggiano giganteschi occhi che scrutano sinistri le vicende umane) in un'apoteosi di filtri, luci abbacinanti, tonalità livide o infuocate. Lo sguardo di Kobayashi ne esalta ogni dettaglio sin nella composizione delle inquadrature, tagliate con ardite angolazioni, e nei movimenti sinuosi della macchina da presa, amplificandone anche le più impercettibili suggestioni attraverso la magnifica colonna sonora di Tôru Takemitsu, ulteriore capolavoro nel capolavoro: suoni d'ambiente spesso fuori sincrono o del tutto assenti e improvvise esplosioni di silenzio si alternano con il commento del celebre compositore, che veleggia tra musica concreta e rumore affidandosi a strumenti classici e distorsioni elettroniche.
Un film che ammalia e conquista per l’inquietudine degli umori che lo percorrono, per il fascino etereo delle atmosfere, per il lento incedere del racconto, capace di schiudersi a poco a poco in tutta la propria magnificenza con risultati di cristallina purezza spettacolare, per il suo poetico volgersi, rispettoso della storia, delle tradizioni, dei rituali e delle superstizioni più radicate nella cultura di un popolo, all’eterno dibattersi dell’uomo alle prese con i misteri dell’ignoto, immergendone la rappresentazione in quel limbo “fantastico”, sospeso tra realtà e magia, che costituisce da sempre l’anima e il nutrimento di ogni fiaba, seppur percorsa da spettrali sussulti di orrore.

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