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La maschera di Dimitrios

Regia di Jean Negulesco vedi scheda film

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La recensione su La maschera di Dimitrios

di spopola
8 stelle

Jean Negulesco non è stato sempre “sciapo” come nell’ultima tranche della sua carriera (quella definita da Sarris “il periodo A.C” , dove A.C. sta per “After Cinemascope”) caratterizzata soprattutto da una serie davvero poco incisiva di zuccherosi “melo” e colorate, fiacchissime commediole sentimentali (le produzioni Fox degli anni ’50): c’è stato anche un periodo precedente di tutt’altra levatura e interesse, in particolare quello compreso fra il 1944 e il 1948 (che sono stati gli anni più produttivi di tutta la sua carriera), durante il quale ha realizzato – indubbiamente aiutato  anche da soggetti e sceneggiature di una certa  qualità - un pregevole gruppo di film variamente influenzati dal noir (non va dimenticato a questo proposito che durante la sua prolifica collaborazione con la Warner, che è poi la casa che gli ha fornito le maggiori “occasioni” per emergere, si è visto anche “soffiare” da Houston “Il mistero del falco”- e probabilmente fu persino un bene, considerato l’esito, pur se per lui fu ovviamente una cocente delusione -per altrodopo che aveva lavorato alla sua preparazione per qualche mese, giustamente convinto che il romanzo di Hammett meritasse una versione più fedele di quelle “all’acqua di rose” realizzate nel 1930 e nel 1936).
D’altro canto Negulesco, un artista  rumeno che era approdato negli Stati Uniti via Parigi sul finire degli anni ’20 con un curriculum tutt’altro che trascurabile (vantava rapporti con Modiglioni e Brancusi), aveva a quei tempi proprio le giuste credenziali per risvegliare l’interesse degli studios hollywoodiani sempre alla ricerca di nuovi talenti (e l’Europa si stava dimostrando una “fucina” davvero feconda in questo senso). Nonostante ciò, anche a lui fu comunque riservata una prolungata gavetta (“l’incidente” relativo a  “Il mistero del falco”  è lì a dimostrarlo) che lo vide rimanere per lungo tempo sul filo di lana, in attesa dell’occasione buona per realizzare un film “di rilevante interesse” che, dopo anni quasi esclusivamente dedicati ai cortometraggi, lo mettesse finalmente in luce.
Il suo esordio vero e proprio (quello “importante”)  si può quindi dire che  avvenne  con questo “La maschera di Dimitrios” (1944)   - e dunque a tutti gli effetti sotto il segno del noir, del quale rimane uno degli esempi più fulgidi e importanti.  Si conferma infatti un film  di ottima fattura concepito e “costruito” (per le atmosfere misteriose e  le figure enigmatiche che lo attraversano) sulla scia di  due esempi emblematici di quegli anni (entrambi del 1941)  che in varia misura avrebbero influenzato, per differenti motivi, non solo quest’opera, ma gran parte del cinema venuto dopo: da un lato proprio il  già citato “Il mistero del falco” con il quale condivideva per altro anche il produttore (Henry Blake), lo straordinario direttore della fotografia (Arthur Edeson), e, in parte, persino lo stesso cast (Sydney Greenstreet e Peter Lorre,  che ritroveremo ancora insieme in altre due successive opere di Negulesco:  “I cospiratori” del 1944 e “L’idolo cinese” del 1946), dall’altro, il modello strisciante di “Quarto potere” - il capolavoro di Orson Welles - in virtù di una analoga forma a incastro, oltre che per la “statura” (a)morale del protagonista.
Tratto da un bel romanzo di Eric Ambler adattato fedelmente da Frank Gruber, il film è
principalmente imperniato sul tema del denaro.
 “Stilisticamente” parlando, il regista ricorre poi ancora una volta e in modo sistematico, all’uso del flash-back quale mezzo “esplicativo” per  restituire, ricostruendola “a brandelli”, una realtà ambigua e sfuggente. Citizen Kane “aleggia” inevitabilmente (anche se la struttura narrativa a mosaico risulta essere questa volta meno “rivoluzionaria” e “inconsueta”, perché già presente nel romanzo di partenza che è del 1939, e quindi antecedente persino al film di Welles), e coinvolge anche – come già accennato – la figura di Dimitrios (a sua volta assimilabile a Kane per molte ragioni), personaggio “leggendariamente” barocco nel suo essere infido, che potremmo benissimo definire “un genio del male”.
Di fascino evocativo quindi il soggetto ne ha davvero tantissimo (anche in virtù di un certo gusto per le fluttuazioni un po’ esoticheggianti della storia) e la realizzazione cinematografica non lo diminuisce assolutamente:  Peter Lorre infatti interpreta  da par suo il ruolo di uno scrittore di romanzi gialli che si trova a Istanbul proprio nel momento in cui viene rinvenuto il cadavere di Dimitrius, e comincia così a interessarsi a questo spietato “figuro” capace di guadagnarsi facilmente  la fiducia delle persone,  per poi corromperle e tradirle con assoluta crudeltà, prima di allontanarsi di nuovo inafferrabile e minaccioso. Un avventuriero senza scrupoli dunque che ha percorso tutti i luoghi famosi che hanno reso “mitizzabile” l’Europa fra le due guerre ( Atene, Smirne, Belgrado, Sofia,   Parigi…) rendendosi colpevole, nel suo “peregrinare infinito”, di ogni possibile nefandezza, dallo spionaggio al contrabbando,  dai ricatti agli omicidi, che esprime una cupa malvagità basata  proprio sul cinico e sistematico sfruttamento dei punti  deboli di individui altrimenti onesti, tutte caratteristiche che ne fanno anche un parente stretto – anzi un antesignano - dell’Harry Lime (e qui si ritorna a Welles)  di "Il terzo uomo" (1949) di Reed, come ben evidenzia anche Renato Venturelli nel suo L'età del noir.
L’asse portante del racconto, che riguarda l’indiretto “rapporto” fra lo scrittore che indaga e il genio malvagio da braccare (tampinare) e “ricostruire”, è  fondato oltre che sul denaro anche sul tema del raffronto differenziato di una sottesa “fragilità” di fondo che si riscontra sia nell’interpretazione “sottotono” di Zachary Scott (forse inadeguata per la statura “multiforme” di Dimitrius, ma funzionale al risultato), sia in quella di Peter Lorre,  indubbiamente straordinaria, proprio perché caratterizzata da una specie di mescolanza fra debole friabilità, timida accondiscendenza e perversione sfuggente. Negulesco ammette per altro (ce lo ricorda ancora Venturelli) di aver modellato l’intero tono del film proprio sulla recitazione di Lorre e sulla maniera in cui l’attore (“il maggior talento che abbia mai visto in vita mia” dichiarò allora il regista) riusciva ad essere sempre inatteso nelle sue reazioni. A questo asse portante, va poi aggiunto il consueto corollario di personaggi grotteschi e dettagli malsani sapidamente rappresentati: una appesantita cantante da night;  un ex spione di strascicata eleganza,  e soprattutto una “inusuale” morbidezza  femminea che  tende a insinuarsi in molti personaggi maschili rendendoli ancor più sfuggenti e “inafferrabili”
Negulesco comunque si mantiene abbastanza fedele a certe caratteristiche di scrittura di Ambler, confermando anche la sua personale, indubbia predisposizione  verso il genere che più sembra essergli congeniale. Ad interessarlo, in ogni caso, non è tanto l’ebbrezza del male, e nemmeno il fascino e il senso d’angoscia della corruzione: il  “noir” – non solo in questo film, ma anche in altre sue opere del periodo - è per lui soprattutto una questione di penombre, di “suggestioni visive”, che gli consentono di attirare lo spettatore direttamente dentro le spire contorte di quei personaggi ineffabili senza i quali il “noir” non avrebbe alcun senso, o perderebbe comunque di significato. “Quando si vedono attori muoversi e parlare nella semioscurità, è sempre più eccitante  che vederli apertamente, perché ci si identifica di più in loro”  sosteneva il regista, e questo suo atteggiamento, questa “predisposizione” si potrebbe dire,  si riscontra precipuamente proprio nelle immagini di La maschera di Dimitrios, fatte di  avvolgenti chiaroscuri, di ombre misteriose più che minacciose (il magnifico, straordinario, suggestivo bianconero di Arthur Edeson  che contribuisce moltissimo all’atmosfera di un film un po’ freddo, ma insolito come questo), e si riverbera anche nell’uso “particolare” degli attori (come già accennato sopra): ancora una volta, la coppia  Greenstreet-Lorre fa faville; della “parziale” necessaria  inadeguatezza di Scott ho già accennato, mentre si confermano perfettamente conformi alle necessità narrative,  tutti gli altri interpreti, Victor Frances e Faye Emerson in testa.
Funzionale il commento musicale.
Ah, dimenticavo: diffidate assolutamente della versione colorata che a volte circola in giro: perde davvero tutto il suo fascino… se proprio vi capita di imbattervici e se è la Tv che ve ne offre l’opportunità, ricordatevi  almeno di “azzerare il colore”!!!!

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