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Faust

Regia di Jan Svankmajer vedi scheda film

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La recensione su Faust

di maldoror
10 stelle

Questo è a mio avviso il capolavoro di Svankmajer, il suo film più geniale, complesso e affascinante. Si è parlato di rilettura surrealista del Faust, e anche se conoscendo l'autore verrebbe spontaneo dare per scontata tale definizione, io mi azzarderei a definirla più che altro "post-strutturalista".
Dopo aver inizialmente rifiutato l'invito di due giovani a recarsi in un teatro per assistere a un loro spettacolo, in seguito a una serie di strani eventi probabilmente causati dagli stessi due allo scopo di convincerlo, un impiegato finalmente cede e decide di recarsi nel teatro in cui dovrebbe aver luogo lo spettacolo. L'uomo comincia ad aggirarsi nel dietro le quinte di questo fatiscente edificio, apparentemente in stato di abbandono da diverso tempo, percorre dei corridoi lerci e infine si reca nel camerino del protagonista, dove inizia in maniera automatica a truccarsi e a recitare la sua parte: si tratta del Faust. Dopo un'iniziale resistenza, l'uomo lentamente cederà a questo sdoppiamento, finchè non si assisterà ad una totale scissione e moltiplicazione dei livelli di realtà: ad un tratto delle quinte di legno cominciano a invadere gli spazi in cui il protagonista si rifugia, e i burattini che dovrebbero far parte dello spettacolo iniziano ad interagire con questi sovrapponendosi alla realtà, ma facendo sì che i due livelli continuino a coesistere l'uno accanto all'altro nella mente dell'uomo, rimanendo scissi ma altrettanto "reali"; ben presto i livelli di realtà cominceranno a moltiplicarsi in una vera e propria "mise en abyme", per cui il protagonista inizierà a interagire coi burattini e le quinte di legno come se fossero reali, per poi passare anche lui nella finzione vera e propria entrando a far parte della recita a teatro, dove i luoghi della rappresentazione diventeranno a loro volta "reali". L'uomo insomma, si ritrova coinvolto in una recita di cui fino a pochi minuti prima non sapeva assolutamente nulla.
Essenziale è il dialogo fra il protagonista-Faust e Mefistofele, venuto a trovarlo in camerino in una pausa dello spettacolo, essendosi ormai totalmente fuse la dimensione reale con quella finzionale: quando l'impiegato-Faust, recitando automaticamente la parte, chiederà a Mefistofele "adesso cerco la forza, la ragione che governa la vita, e non solo nel suo aspetto esteriore", questi gli risponderà che l'uomo può conoscere soltanto "i pensieri che il linguaggio può esprimere", e che alcune cose travalicano i limiti della parola; Faust replica "e il desiderio e l'affetto, l'afflizione e il dolore? Non posso descriverli, ma li sento nel petto", e Mefistofele risponde: " non hanno sostanza, come la nebbia", e Faust: "dunque anche l'uomo è solo aria..."; poco dopo il diavolo svelerà a Faust che gli manca l'ingegno per vedere "il cuore e l'anima della natura in ogni singolo filo d'erba".
Insomma, la conoscenza è un'illusione creata dal linguaggio in quanto l'uomo può conoscere solo attraverso di esso e le rappresentazioni fittizie che questo produce, oltre il linguaggio non c'è nulla, c'è solo la natura come mens momentanea, come generazione spontanea e istantanea, priva di un progetto; o ancora meglio, al di la del linguaggio c'è solo l'eterno ritorno dell'identico, in cui tutto si ripete all'infinito tornando uguale a sè stesso (o meglio: eternamente "spostato" da sè stesso, visto che l'eterno ritorno è dato dal ciclico raggiungimento di un limite estremo delle possibilità che formano il tutto, raggiunto il quale questo tutto torna a ripetersi, ma in maniera sempre differente da sè). La stessa recita cui il protagonista prende parte rimanda a qualcosa che è già accaduto e che continuerà ad accadere in eterno, e che l'uomo non fa altro che ripetere ogni volta automaticamente credendo di esserne il soggetto, mentre invece ne è solo "attraversato" passivamente, così come si è attraversati, "parlati" dal linguaggio, anzichè parlarlo; i fantasmi che si presentano al protagonista sotto forma di burattini, giocattoli vuoti che ripetono la loro parte meccanicamente (e non troppo differenti da quelli di Alice, il precedente lungometraggio del regista), non sono altro che i simulacri dell'eterno ritorno, i fantasmi prodotti dall'eterno ripetersi dello stesso.
Il Mefistofele di Svankmajer dunque, è proprio il demone dell'eterno ritorno, una sorta di Dioniso nietzscheano, e ciò è particolarmente evidente nella scena dell'invocazione di quest'ultimo, pronunciata dall'interno di un cerchio disegnato per terra da Faust, durante la quale vediamo mutare più volte il paesaggio attorno a lui, come se in quel momento egli passasse attraverso tutte le infinite volte in cui quella scena si è ripetuta.
Nell'eterno ritorno però, tutto si ripete ma in maniera sempre differente da sè stessa, nulla torna identico a sè e quindi nessuna identità sopravvive, tanto meno quella dell'Io, identità illusoria creata dal linguaggio, motivo per cui al di la del linguaggio l'uomo è solo "aria", per questo motivo cioè oltre il linguaggio c'è il nulla, un nulla che per l'appunto è inaccessibile al linguaggio e quindi alla comprensione dell'uomo; e a questo sarà dovuta la progressiva frammentazione del protagonista, prima quella del suo Io, che si scinderà in tanti piccoli Io quante sono le parti da recitare e le realtà che si vengono a sovrapporre, alla fine addirittura, frammentazione corporea.

 

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