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Frozen

Regia di Adam Green vedi scheda film

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La recensione su Frozen

di scapigliato
10 stelle

Film breve, compatto, solido, tre soli personaggi, unità di tempo, luogo e azione, paure ataviche, minaccia animale, topizzazione delle scene: un piccolo capolavoro. Adam Green, l'autore di quello che doveva essere l'erede di Jason, Michael, Faccia di Cuoio e Freddy, ovvero il Victor Crowley di Hatchet (20069), ha finalmente colpito nel segno. Se Hatchet si trascinava con forza e non riusciva a creare una nuova mitologia – cosa più che riuscita al Wes Craven di Scream o alla serie su Jig Saw l'Enigmista – incapace di cogliere le suggestioni del genere e trasformarle in struttura narrativa, Frozen riesce ad affascinare fin da subito.
I dialoghi hanno un buon ritmo, nulla sembra appiccicato a caso, tutto ha una sua oliatura e fluisce preciso come un ingranaggio perfetto. Gli attori sono presi dalle seconde file dei volti noti di questa generazione e il risultato è che funzionano benissimo e hanno una loro personalità tradotta poi sullo schermo in pose, sguardi e figurazioni combinate tra loro con partecipazione. Se l'attore è segno, la scrittura che ogni personaggio di Frozen dà di sè è calibrata e mai banale, di rapida e precisa interpretazione. Kevin Zegers non è l'ultima ruota del carro, ha talento anche senza restare mezzo nudo. Shawn Ashmore funziona bene come terzo incomodo, come convitato di pietra – o di ghiaccio – e diventa lungo l’arco della storia il nuovo oggetto della dialettica femmina/maschio solitamente insita nei survival-horror. Emma Bell, non eccellente, ha il pregio di assolvere al ruolo di eroina senza richiamare su di sè ogni attenzione narrativa. Il perfetto meccanisco di Frozen sta in questo: rendere i personaggi semplici figure narrative, attori di azioni precise che servono a portare avanti la vicenda. Tipizzandoli, la regia ha fatto in modo che nessuno la facesse fuori dal vaso o che rubasse la scena all'intreccio, lasciandoli come ottime pedine di un gioco pericoloso.
Raccontare senza freni inibitori e con estrema cattiveria, alcune tra le paure più ataviche dell'uomo, incastonando la vicenda nell'inospitale paesaggio di una montagna innevata e famelica, utilizzando come protagonisti dei giovani ragazzi nel fiore della loro vita amicale e sessuale, candidandoli all'obitorio con la freddezza di un dio indifferente, è un lavoro molto difficile e dal risultato poco sicuro. Adam Green, ci riesce. Se sono solo due i temi più importanti e "portanti" della vicenda, ovvero il pericolo di congelamento e di essere divorati da un branco di lupi – ecco le ataviche paure – molti sono invece i temi con cui viene infarcita la storia, dando spessore non solo ai personaggi, ma a tutto l'impianto narrativo. Per esempio, il forte legame che unisce i due amici, Kevin Zegers e Shawn Ashmore, che sa un po' di omosessualità irrisolta, mascherata come al solito da triviale cameratismo  giovanile, è in realtà nulla di più della realistica inclinazione adolescenziale per l'esclusiva dell'amicizia. Se gli attori, e pure i personaggi, sono ben più che adolescenti, ben si prestano lo stesso a rappresentare, in questo wilderness-drama, l'incoscia attrazione per il corpo altro, quello dell'amico, quello della ragazza, quello di un animale a cui siamo visceralmente legati, che innerva tutta l'emotività adolescenziale e si trascina, fortunatamente, anche nella vita adulta seppur con forme più mimetiche e poco esplicite, più rimosse. Questo forte legame è messo in discussione dall'irrompere nella coppia omoerotica, della ragazza di uno dei due, Emma Bell, provocando attriti sottili, ma anche più espliciti segni di affetto. Allo stesso modo, la relazione erotica tra ragazzo e ragazza è interferita dalla gelosia/invidia del terzo incomodo, provocando in senso inverso gli attriti di cui prima. Inoltre, lo spettro della morte sicura, destabilizza ulteriormente il sistema dei personaggi e permette all'azione di prendere la sua irrefrenabile corsa verso l'epilogo.
Un segnale molto importante di questa deflagrazione relazionale, che comunque non virerà in un gioco al massacro, ma piuttosto in una consapevolezza maggiore dei propri sentimenti e della propria umanità, è il ruolo notevole dell'elemento fisico che come in tutti i wilderness-drama, o comunque negli horror carnali così come nei gender-movie, è elemento fondamentale e imprescindibile. L'ambiente selvaggio, la corruzione del corpo e le sue fisiologie vengono rappresentate in Frozen con duro realismo, senza fronzoli o distorsioni soggettive, allontanandosì così dall'orrorifico tout-court e quindi dalla sfera fantastica dell'immaginario nero, per avvicinarsi soprattutto verso un verismo macabro, terrigno, carnale, che inquieta e perturba con estrema efficacia. Gambe spaccate, visi bruciati dal fretto, corpi sbranati – e sessualmente contesi – intimità fisiologica umiliata e quant'altro, vanno tutti in un'unica direzione, quella angosciante di una morte estremamente fisica, di un disagio non solo psichico ma sentitamente fisico, a riprova che l'unica verità che possediamo, l'unico metro di misura della vita che abbiamo e l'unico ultimo referente a cui guardare è il nostro corpo con tutti i suoi sensi. Nulla di più.
Inoltre, la minaccia animale incarnata dal lupo aggiunge riflessione su riflessione. Da sempre atavico nemico dell'uomo, vero man-eater dei popoli occidentali, veicolo di terrigna ambiguità – opposizione cane/lupo fa rima con cultura/natura, bene/male – il lupo famelico delle favole è qui co-protagonista vero e proprio, senza digitale o animatronic di sorta, dei poveri ragazzi in lotta con la natura ferina e con i propri limiti umani e borghesi. Da bravo e ancestrale psicopompo, il lupo traghetta loro verso la morte, affonda il muso nei loro corpi e li terrorizza con i suoi ululati. Come animale totemico, scelto per essere l'elemento conflittuale più importante nell'economia narrativa, il lupo rappresenta non solo il corrispettivo selvaggio del nucleo tribale umano – maschio e femmina fedeli, un maschio alfa alla guida del branco, etc – ma anche una virilità esplicita che mette a dura prova quella dei "fichetti" borghesi, più attenti a quello che vestono e agli inutili affari di cuore che a come procurarsi il cibo, sopravvivve, combattere il freddo, difendere il proprio territorio. Non solo: sottilmente, il lupo mette a confronto i due ragazzi. Uno solo può essere l'esemplare alfa, ed ecco una sottile gara di machismo che causa l'irreparabile, inclina i rapporti, sconforta le anime fino alla sublimazione finale.
Purtroppo, come tradizione vuole, la purezza americana minacciata dal male è femmina. Quanti horror conoscete con protagonista unico un ragazzo? Da sempre è femmina il minacciato, e maschio la minaccia. A parte l'inflazione del plot, al pubblico maschile non viene quasi mai data l'opportunità di interrogarsi attraverso l'horror, se non nei brevi momenti di empatia con il protagonista maschile o con il villain di turno, feroce cortocircuito identitario. Ecco, se proprio dovessimo trovarne una, l'unica debolezza  del film è non dare ai ruoli maschili l'occasione di riprendersi la scena come eroi finali, continuando ad essere, dei due termini in lotta nel gender-drama, quello più debole, più bistrattato e il meno coscientemente approfondito, in nome di una rappresentazione psicodrammatica che predilige sempre l'elemento femminile. Anche in Frozen dopotutto, la silenziosa lotta di genere tra maschile e femminile finisce appannaggio di quest'ultimo, senza sperimentare il brivido di un'inversione di tendenza e di una risemantizzazione dei codici e dei termini dell'horror.

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