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Glory to the Filmmaker

Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film

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La recensione su Glory to the Filmmaker

di OGM
8 stelle

Takeshi Kitano non affronta il declino cercando di colmare il vuoto con la solita rassegna autocelebrativa: alla retrospettiva delle autocitazioni preferisce l'anti-logia degli insuccessi, degli appunti abbandonati in un cassetto fra le cose inutili, e riesumati per un sinistro revival che ha tanto dell'autoflagellazione. Anziché far rinascere, con la consueta nostalgia dei bei tempi, i sogni mai realizzati, egli risuscita, dall'oblio della vergogna, i progetti che, una volta messi in pratica, si sono rivelati incubi.

Il sentimento che pervade uniformemente il film è una deprimente autoironia, che a tratti assume il tono sconsolatamente dimesso di una resa incondizionata. Kitano si autoritrae mentre, senza entusiasmo e quasi  a forza, assembla frammenti cinematografici che, più che ricordi e pensieri, sembrano fantasiosi spezzoni di mancanza di idee. Il regista percorre con cosciente rigore la strada del pianto autobiografico (qualcuno, maliziosamente, potrebbe definirlo un piagnisteo), che si prolunga in modo drammatico ed insensato, per imitare l'infruttuosa e patetica insistenza della disperazione di chi le prova tutte e non ottiene niente.  Kitano ci dimostra cosa significhi, in assenza di nuova linfa creativa, voler (dover?) fare tanto per fare, tirando fuori da sé quel che si può, ossia il peggio. Per questo egli volutamente indugia nella noia e nella ripetitiva banalità dei luoghi comuni, riversando sullo spettatore numerose riprove di come sia facile cadere nel ridicolo, sia che ci si affidi alle convenzioni, sia che ci si opponga ad esse dedicandosi alla satira.

La sua regia ha la fredda rigidità di un pupazzo di plastica, inespressivo e inanimato come una vena artistica ormai prosciugata. Il manichino sosia di Takeshi non solo è l'icona della sua aridità, ma è anche la sua controfigura,  che lo sostituisce nei sempre più frequenti momenti di imbarazzo. Com'è nel suo stile, Kitano entra in scena per mettersi subito in disparte; egli lascia così che gli inopinati parti del suo infelice estro proseguano da soli il loro rovinoso cammino nel mondo cinematografico. Le sue idee per i soggetti, i suoi spunti per le trame sembrano cumuli di stelle filanti che si srotolano e si intrecciano a casaccio, dando vita ad una surreale forma di cartoon.

Gli episodi del film sono una carrellata di abbozzi registici falliti, sono, cioè, eloquenti saggi di incapacità, che nemmeno lo sforzo di aderire ai canoni tradizionali (il teatro Nô, le storie quotidiane di Ozu, gli scenari  fantascientifici alla Honda, le storie di  supereroi e samurai) arriva a riscattare. 

Ma tutto ciò che, in quest'opera, dispiace e infastidisce, ne costituisce  di fatto la forza e l'originalità.  In "Glory to the filmmaker" Kitano riesce a trasformare il corto circuito in una girandola grottesca, realizzando un esperimento inedito: egli compone un (in)glorioso ed anti-estetico manifesto della crisi, sua personale e del cinema giapponese, che conosce i canoni e le tecniche, ma, apparentemente, non ha più nemmeno un briciolo di voglia e di ispirazione.

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