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Lo stravagante mondo di Greenberg

Regia di Noah Baumbach vedi scheda film

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La recensione su Lo stravagante mondo di Greenberg

di ROTOTOM
4 stelle

Noah Baumbach era il regista de Il calamaro e la balena. Ricordo New York, Jeff Daniels e Laura Linney. La commedia acidella di borghesi in picchiata. Il film gravita intorno allo scrivere, perchè Noah scrive. Ben Stiller è il metattore policamente incorretto, poiché scorretto sarebbe troppo, che ha navigato trasversalmente attraverso la commedia americana. Tra il demenziale e il porcello senza essere né Zucker né Porky’s. Complessato e a suo modo vincente senza essere Woody Allen. Molto ironico. I film di Stiller hanno come marchio Stiller stesso, sono grossolani e buffi, senza vergogna e cinefili. In Tropic Thunder, spassoso esempio di metacinema applicato allo star system, si beccava una lezione  da Robert Downey Jr sul ruolo del disabile nel cinema. Disabile ma genio, a suo modo, questo piace al pubblico. Il diverso più vicino possibile all’uguale. Un normalmente diverso.  A ben pensarci è proprio la natura di Stiller: un genio goffo. I disabili veri risultano patetici e non hanno successo al cinema, diceva Robert Downey Jr.  Un altro grande regista americano, Wes Anderson, mette in scena idealisti nevrotici, sognatori depressi, disadattati allampanati. Anch’egli molto leggero, in apparenza, pastello. Soprattutto i suoi personaggi sono meravigliosamente snob. Guarda un po’, Noah Baumbach è anche sceneggiatore per Anderson.

 

Questo per dire: Stiller nel film di Baumbach fa la parte di un depresso in vacanza. Ha tentato il suicidio, è uscito da una casa di igiene mentale. E’ a suo modo un disabile ma stupidamente patetico. Nevrotico e asociale riesce, solo come nei film riescono a fare,  a portarsi a letto la ragazza alla pari giovane e un po’ leggera che lavora per suo fratello, più per esigenze di sceneggiatura che per convinzione. C’è il cane che sta male e lui lo cura. Bene.  Ci sono i suoi vecchi amici che lo snobbano e coi quali litiga per l’ennesima volta. Opperò. La storia, focalizzata sul tentativo di redenzione, è supponente nel suo esagitare tratti autoriali in cui poco è il girato e molto il detto. E detto male. Scrittura dello stesso regista, autocompiacente e profondamente noiosa , scandita da una messa in scena del più ritrito cinema indipendente, quello del Sundance festival, i cui film si assomigliano tutti e tutti hanno lo stesso spasmo registico, lo stesso singhiozzo, la stessa lacrima.  Il cinema delle nevrosi, dei personaggi-limbo senza una precisa connotazione, gli abbigliamenti finto casual, le mossette e le faccette. Le sfocaturine artificiose, gli zoom che schiacciano i personaggi nel loro mondo,  lo slang. Dio ci salvi dallo slang metropolitan-easy-cool. Non se ne può veramente più.

“Beviamo una cosa?” Frasetta cacciata lì una decina di volte mischiata al solito vuoto ciarlare insensato zeppo di intercalari, unitamente ad un genocidio di congiuntivi. Lo stravagante mondo di Greenberg, è una metastasi di “Io credo che  è meglio”  “ Penso che è così…” “Credo che tu devi”. Fa molto disimpegno, vero. Molto “cioè scusa”. La traduzione italiana ha dato il meglio di sé traslando in senso letterale la forma verbale al presente che in Inglese sostituisce il nostro congiuntivo.  

Brutto film, veramente. Insostenibile per verbosità e presunzione. Pochissime idee già rimasticate in decine di altre opere più o meno simili che non trovano una soluzione filmica ma solo uno sterile campo e controcampo di gente che parla. Stiller smagrito e acido che cerca la virata del cinema onanistico d’autore, non si regge. Che torni a fare il guitto e che Baumbach ritorni a scrivere per chi sa mettere in scena con gusto.

Io credo che è meglio che questi due vanno a bere una cosa e ci pensano un po’ su…cioè….è importante.
Come sono easy. Ho il maglione con le maniche che mi coprono le mani e un giaccone informe. Come sono Sundance.

 

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