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Adam Resurrected

Regia di Paul Schrader vedi scheda film

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La recensione su Adam Resurrected

di giancarlo visitilli
8 stelle

Diciamolo subito: Adam Resurrected è un capolavoro. Per anni, sono stati tanti, e fra i più disparati, i registi interessati a trasporre sullo schermo l’omonimo romanzo di Yomar Kaniuk, del 1968.

Non un film sulla memoria, al modo di tantissimi e retorici altri. Il film di Shrader, autore dello scorsesiano Taxi driver (1976), ha un apporto superiore e ruota tutto intorno al dubbio: su come sia possibile la memoria, nel caso di vite distrutte, che si sono accompagnate dall’amore e del riso? Siamo nell’Israele del 1961 ed Adam Stein è uno dei pazienti dell'istituto mentale per i sopravvissuti all'Olocausto. Prima della guerra, a Berlino, però, Adam era un artista molto amato dal pubblico. Nel campo di concentramento, a cui sopravvive, diventa il "cane" del comandante del campo, intrattenendolo, mentre sua moglie e sua figlia sono mandate a morire nelle camere a gas. Un giorno, nell'ospedale, Adam si accorge, “annusando”, un altro “cane”. Si tratta di un giovane, cresciuto chiuso in una cantina, legato ad una catena. I due si riconoscono per quello che sono e iniziano insieme un percorso di crescita e cura. L'amicizia e la condivisione di una situazione così bassa dell'esistenza, li porterà alla ricerca della vita là fuori, verso una possibile rinascita.

Anche Orson Welles, negli anni addietro, fu ingaggiato per il terribile ruolo di Adam Stein, qui interpretato dallo straordinario Jeff Goldblum (La mosca, 1986). E’ lui il cristo, che passa dalla passione, travalicando anche la resurrezione, che nel film non c’é. Semmai c’è la cura, unica via possibile verso una salvezza da sopravvivenza. In un continuo alternarsi di presente e passato, ‘dipinti’ mediante l’eccezionale fotografia di , tutto è scavato, ridotto all’osso, compresa l’esistenza umana.

Adam Resurrected è un non genere, perché definirlo sarebbe troppo riduttivo. In esso c’è la magica dimensione della tragedia chapliniana e la commedia visionaria di Burton. Ma non manca neanche il senso di quel che Fellini avrebbe ammesso, in occasione di uno dei suoi personaggi circensi, proprio come in Adam: “Io non faccio politica, tutti amano il circo”. Perché Adam Stein, negli anni Venti, in Germania, era una star del cabaret: mago, clown, ma ebreo. Ed ecco la sopravvivenza di un uomo ch’è stato tutto ciò, ora personificazione della morte che passa attraverso la non-vita. Quella di chi ha suonato mentre la moglie e una delle figlie erano condotte nella camera a gas. Pur tuttavia, oggi Adam è quell’uomo che ha saputo trasformare il dolore in coraggio e condivisione di vita per farsi, egli stesso, chiave d’uscita per un’altra umanità tenuta in gabbia. C’è continua ricerca nell’umanità descritta da Shrader, un viaggio in cui il percorso si contorce tra i tanti delitti e gli altrettanti castighi. E’ disperante, perché tutto il grido è urlato nel deserto, ch’è piuttosto spazio interiore. Perciò, tutto rimane in sé, tenuto nascosto nei sepolcri umani. Non c’è resurrezione che tenga. Sebbene il cinema di Paul Shrader rappresenti la rinascita di una nuova vita del cinema.

Giancarlo Visitilli

 

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