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Hadewijch

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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La recensione su Hadewijch

di lorebalda
9 stelle

 

Verso una mistica delle immagini

Il cinema è un vero e proprio mistero per il regista filosofo Bruno Dumont: è un mezzo poetico capace di legare fra loro le immagini più diverse; è l'esperienza dell'unità profonda di tutte le cose. Il cinema è un'arte spirituale: durante la visione, lo spettatore accede a una dimensione nuova, poetica ed emozionante – qui l'astratto e il concreto sono indistricabili, l'invisibile ha l'aspetto del visibile, e diventa un volto, un corpo, un albero, un paesaggio. Il cinema è simile alla mistica: ce lo dice il quinto lungometraggio di Dumont, Hadewijch, un film dolce ed intenso, poetico ed ineffabile.

Si dice spesso che Dumont sia un regista ripetitivo: Hadewijch smentisce queste accuse. Mancano il sesso e la violenza brutali che avevano caratterizzato le sue discusse opere precedenti; ci sono più dialoghi; i colori sono pieni, e le belle immagini sono state addirittura ritoccate al digitale prendendo come modello il cinema espressionista e Black Narcissus (1947) di Powell e Pressburger.
Una novità, quella dell'immediata bellezza compositiva, da non sottovalutare. Nei capolavori precedenti del regista francese, il mistero del reale era evocato attraverso il sonoro in presa diretta, utilizzato in funzione espressiva, e attraverso il montaggio (alternanza di primissimi piani e campi lunghi: procedimento formale pressoché assente qui); in Hadewijch, la parte centrale ambientata a Parigi privilegia le inquadrature lunghe, i rumori della città. Un cambio di prospettiva importante, che fa di Hadewijch il meno metafisico dei film di Bruno Dumont: sensazione rafforzata anche dalla scelta di cambiare formato visivo, e passare dall'ampiezza spettacolare del Cinemascope all'intimità stretta dell'1.66.

Una scelta assolutamente meditata, questa. Dumont infatti è un autore ormai maturo: con Hadewijch il regista francese continua ad interrogarsi sul cinema, sulle sue capacità espressive, e avanza addirittura un parallelismo fra l'ascesi religiosa della sua protagonista, la giovane Céline, e il gesto del filmare. Per la mistica cristiana, il trascendente è raggiungibile soltanto attraverso limitazioni e sofferenze corporali: la carne impedisce di trovare Dio. La giovane Céline prende alla lettera il messaggio religioso: fra le varie rinunce, c'è quella sessuale, la più frustrante. “Mi manca il Suo corpo”, confesserà la ragazza. In Hadewijch la dimensione spirituale chiama continuamente la dimensione carnale, e viceversa: non c'è sesso, ma è il film più erotico di Bruno Dumont.

«Filmando o montando le immagini, vedo nascere cose, talvolta visibili talvolta no, che disarmano l'intelligenza. Per questo dico che c'è una vicinanza fra il cinema e la mistica: per il rapporto che entrambi intrattengono con la realtà e le forme esteriori, per la potenza delle sensazioni che generano» (Bruno Dumont)

Nulla in Hadewijch è casuale. Le scelte formali operate dal regista hanno un senso preciso: vogliono essere un'eco dell'estremismo religioso di Céline. Dumont mortifica la mise en scène, scegliendo di inquadrare il meno possibile il paesaggio; e concentra tutta l'attenzione dello spettatore dentro l'immagine (mai stata così perfetta), cercando di ridurre ai minimi termini le potenzialità del fuoricampo (letteralmente: la dimensione dell'alterità). Per questo le immagini di Hadewijch sono così belle e attraenti: è il colpo di genio del film, portare lo spettatore a simpatizzare per una ragazza fuori di testa, a trovare plausibile l'implausibile.
La provocazione dumontiana, dunque, è ancora morale: riguarda la sospensione del giudizio, il superamento del principio di non contraddizione. Céline ama Dio, eppure partecipa a un attentato terroristico; il sentimento di Céline è puro, eppure la condurrà a tentare il suicidio. E ancora: Dio è ovunque, ma non Lo vediamo; tutto è grazia, ma il male vince (quasi) sempre.

Provocazioni inutili? No, perché è proprio nell'accostamento degli opposti, e nel loro superamento passando per il mondo delle sensazioni (ovvero andando al cinema, aldilà del bene e del male), che sta il senso più profondo, filosofico, dell'operazione dumontiana. Si prenda ad esempio la sequenza ambientata in chiesa, quella del concerto di Bach:

 

Per Céline è un'epifania. La ragazza è in estasi: la sua attenzione, però, non è catturata dalla musica, bensì dal fatto che i musicisti suonino proprio vicino al crocefisso (e, con sottile discrezione, Dumont inquadra proprio a questo dettaglio). È la sequenza chiave di Hadewijch, ed è il momento in cui il cinema dumontiano si prende la sua rivincita sull'ideologia: Céline unisce visibile (il crocefisso) e invisibile (la musica) in un'astrazione, ovvero in Dio; eppure è condannata alla concretezza (le persone che suonano). Dumont invece, attraverso l'arte del montaggio (attraverso il cinema!), può andare oltre, superare l’opposizione limitante carne spirito: il regista, con un campo-controcampo tanto semplice quanto geniale, inquadra il volto in estasi di Céline, gli si avvicina lentamente, e rivela un invisibile non più aldilà ma aldiquà, inseparabile dalle cose e dal mondo.
Ebbene, questa sequenza e il finale di Hadewijch rappresentano una vera e propria dichiarazione di poetica. Il messaggio del regista, se di messaggio si tratta, è chiarissimo: la religione è alienazione, il cinema rivelazione. Dio è morto. Hors Satan può cominciare.

Articolo già pubblicato (in una versione più estesa) qui: http://specchioscuro.it/hadewijch/

 

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