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Somewhere

Regia di Sofia Coppola vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Somewhere

di ROTOTOM
6 stelle

Tre lunghissimi minuti iniziali durante i quali una Ferrari gira solitaria in un circuito in mezzo al nulla, scomparendo dal quadro ad ogni giro ma della quale si sente l’eco del rumore. Ferrari è già di per sé una metonimìa, l’oggetto che concentra nelle sette lettere del marchio l’arrivo ad una condizione di esclusivo prestigio economico e sociale. Il nulla è il nulla. Questa condizione chiuderà il film, senza risolverlo, in una sofferta ellissi temporale.

 Somewhere è un film lento e dolente, rispetto ai bellissimi film precedenti Lost in Translation (2003)  –manifesto stilistico dell’autrice – e Marie Antoinette (2006) è forse un passo indietro ma anche un passo se possibile ancora più  nichilista e disperato, “dentro” il malessere dell’essere divo.

 Laddove l’ironia immobile di Bill Murray stemperava i silenzi e le incomprensioni di uno straniero in terra straniera; dove la vivacità fanciullesca di Kirsten Dunst cercava inutilmente di abbattere  e quindi aprire al futuro la catacomba dorata, impomatata e rigida nella quale era stata scaraventata, in Somewhere l’arrendersi è il male minore di un’esistenza completamente rimossa dalla vita biologica.
La STAR è vinta e fagocitata dalla sua stessa grandezza, la stella che giunta alla massima luminosità ed emissione di energia non può fare altro che divenire buco nero e rimanere solo e invisibile ad attirare a sé meteoriti e pianeti già morti.

Sofia Coppola traccia l’ennesima parabola della vita nella stratosfera dei famosi, quasi che i suoi film fossero delle sedute di psicanalisi, lei che si è dovuta confrontare dalla nascita con la condizione di privilegiata in quanto figlia di uno dei più grandi registi e produttori della storia del cinema: Francis Ford Coppola. Era la ragazzona paffuta che moriva goffamente sulle scale dell’Opera ne Il padrino parte terza e con essa chiudeva giustamente la propria parentesi d’attrice.

Divenire Autrice, e fare dei film sicuramente migliori di quanto fatto dal celebre padre nell’ultimo periodo è la terapia, i suoi primi tre lungometraggi se non sono capolavori ci manca poco, il tema è sempre quello: il rapporto del divo con se stesso e l’implosione del mondo poggiato sull’effimera sicurezza della fama.

Johnny Marco è il divo  rimasto solo nel suo splendore, dimesso e depresso ma nessuno se ne accorge.
La Coppola lo segue come un fantasma nel suo non esistere, ne registra la progressiva perdita di identità, lo attende ad una reazione che non c’è nei lunghi silenzi. Sospensioni narrative che si accumulano e acuiscono il disagio, noia e ripetitività cristallizzano il film in quadri a camera fissa.
Fa male Somewhere perché è fastidioso e tedioso, di una bellezza masochista e sadica insieme, filmato in un digitale che sporca e rende ancora più squallide le digressioni sessuali del divo con  lap dancer un po’ impacciate e l’immobile eleganza delle feste organizzate a sua insaputa. Se possibile rende ancora più patetica la televisione italiana nella grottesca cerimonia di premiazione dei Telegatti dove fanno la loro bella figura Nichetti, la Ventura, la Surina, la Marini  e Frassica. 

Un umorismo acido affiora di tanto in tanto e fa storcere la bocca in un sorriso sottile come una ferita.

Stephen Dorff è bravo a fare di Johnny Marco la star che si sforza di non esserlo, in effetti se non fosse per le chiamate della sua agente per estemporanee sessioni fotografiche, donne che si spogliano al primo incontro, Benicio del Toro che lo saluta per nome e la Ferrari nera non sembrerebbe affatto un divo. Il mondo ha preso a girare intorno a Johnny indipendentemente dalla sua volontà, i luoghi perdono consistenza– non a caso soggiorna all’Hotel Chateau Marmont che è tanto esclusivo e lussuoso quanto impersonale - l’identità si smaterializza nella popolarità. Fortissima e indicativa di tutto ciò la sequenza del make up per gli effetti speciali in cui il viso dell’attore viene ricoperto completamente di una materia informe rimanendo così, annullato, per un tempo indefinito.

Il barlume di luce e unico appiglio alla realtà è il rapporto con la figlia Cleo, interpretata da una magnifica Elle Fanning sorella dell’insopportabile petulante Dakota - speriamo che con l’età non si rovini -  che letteralmente si divora tutte le altre attrici, Laura Chiatti compresa.

Poi più  nulla, la discesa verso l’inesistenza è inarrestabile. E ad un certo punto non succede più assolutamente niente.

E’ una bella sfida ai nervi quella della Coppola che coscientemente cerca la rarefazione  e l’introspezione, il silenzio dei corpi e il loro fugace manifestarsi, gli sguardi persi in sorrisi falsi.

Il film più teorico in cui il corpo attore deve annullarsi fino a divenire astrazione pura, simbolo di un mondo non più neppure marcio ma già decomposto in rituali anonimi per mostrare  il meccanismo ad orologeria della fabbrica dei sogni.

Johnny Marco è uno che ha perso la verginità e che non trova il coraggio di suicidarsi, il suo mondo è un mondo alieno in cui sempre qualcosa si perde durante la comunicazione, un pezzo di sé per esempio. E’ il re del suo regno dorato in disfacimento. Il finale aperto ad interpretazioni soggettive è l’ultimo sgarbo, perché Somewhere è un film cattivo soprattutto con lo spettatore, il vero artefice dell’elevazione a potenza del divo e quindi del suo isolamento.

Non vincerà alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ma rimane un film da vedere se non ci si aspetta un film d’intrattenimento e si è disposti a soffrire un po’.

 

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