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Il figlio più piccolo

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Il figlio più piccolo

di mc 5
4 stelle

Non posso fare a meno di collegare il disagio che ho provato durante la visione di questo film con l'analogo disagio che provai in occasione di "Io, Lara e loro". Due film che mi hanno entrambi notevolmente deluso, ma con dei distinguo: 1) il film di Verdone rispetto a questa "roba" di Avati è un capolavoro 2) ho preferito rinunciare alla recensione del film di Verdone proprio perchè ho troppo rispetto per Carlo, che trovo persona umanamente ed intellettualmente degnissima, per cui la stima verso la persona era troppo alta per in qualche modo "alterarla" o incrinarla per colpa di un singolo film sbagliato che in fondo è solo un episodio nell'ambito di una lunga e brillante carriera. Per Avati il discorso è assai diverso. Con Avati non ho mai avuto una gran sintonia, pur rispettando la sua lunga esperienza professionale. Trovo, in generale, il suo ricorrente appoggiarsi al proprio personale "amarcord" di una "Bologna che non c'è più", tutto sommato ambivalente. Da una parte Avati ci sa fare nel far rivivere sullo schermo i fasti umani della propria giovinezza, anche grazie all'utilizzo di "maschere" molto efficaci (mi riferisco agli "Amici del Bar Margherita"). Nel contempo, però, tutto ciò comincia un pò a puzzare di clichè, di macchiettismo reiterato. Ma finchè Avati ripesca dai suoi ricordi personali, nulla da eccepire. I dolori arrivano quando Pupi si confronta con l'oggi, come tristemente accade in questo suo nuovo film. Avati, quando si pone di fronte alla società odierna, appare spaesato, come se fosse alle prese con qualcosa che non sa decifrare o su cui non riesce ad intervenire. Riflettiamo su questo punto. Qual'è il tema centrale del film? La corruzione. Figuriamoci, nulla di più tristemente attuale, l'argomento del giorno, quello che (ahimè) impazza su tutti i media. Avati gestisce il tema con amarezza, con delicata poesia, scegliendo il registro della malinconia. Nessun problema, se non fosse che questa "chiave" di lettura del fenomeno fa emergere quella deriva "buonista-cattolica" che è la cifra primaria della sua cultura. Avati in fondo cosa fa? Come lui stesso ha dichiarato in svariate interviste, rispetto allo sgomento che lui prova (sgomento sincero che mi guardo bene dal mettere in dubbio e che è condiviso da ogni persona di buon senso) nei confronti del cinismo e della corruzione dilaganti, egli contrappone il candore, l'ingenuità, la purezza di sguardo (tutti elementi perfettamente racchiusi nel cervello e nel corpaccione del giovane Baldo). Ora, ognuno è libero di pensarla come crede, ma come si fa a contrapporre a questo senso di marciume, che ogni giorno ci assale dalle prime pagine dei giornali, l'idea di una verginità intellettuale o di un infantile candore? No. Di fronte agli "affaristi" disonesti e ai trafficoni ci vogliono gli attributi di investigatori e magistrati cazzuti, altro che storie. Nel film, oltretutto, si dà il caso che l'unico personaggio dotato di un briciolo di cervello, cioè il figlio più grande (che ha -lui solo- percepito la follìa da cui è circondato) viene trattato malissimo dalla sceneggiatura, relegato ad una figurina sullo sfondo, appena abbozzata, di cui peraltro nel finale ci si dimentica totalmente. Se fossimo stati nella realtà vera, sarebbe stato lui a prendere in pugno la situazione e a prendere a calci in culo chi se lo meritava, a partire dai parenti stretti. Ma Avati ha preferito una deriva diversa, compreso un finale surreale e grottesco che io trovo molto poco credibile. Anche se poi, a voler essere pignoli, è tutta la vicenda ad essere ben poco credibile, nei suoi assunti e nelle sue evoluzioni. Insomma una sceneggiatura costruita in modo infelice e molto incerto attorno ad un'idea di base che io reputo puttosto esile (il magnate che coinvolge il figlio ingenuo riversando su di lui gli immensi debiti accumulati, ma che poi d'improvviso, traumatizzato dal carcere, diventa buono e torna a convivere con moglie e figlio in una modesta casa popolare). Sinceramente, io non me lo vedo un miliardario che, rovinato e umiliato, torna a casa e sta in mutande al balcone assorto nei suoi pensieri. Ma forse è un problema mio, che non ho abbastanza fantasìa, mettiamola così. Fin qui ho detto la mia su una trama che non è riuscita assolutamente a coinvolgermi. Ora entriamo più nello specifico, con l'avvertenza che sarà un massacro, dal momento che in questo film c'è ben poco da salvare. Anzi, per comodità, preferisco dire fin da subito cosa ho apprezzato del film e precisamente solo un paio di cose. Le musiche di Riz Ortolani, un "grande vecchio" che si conferma uno dei migliori compositori di colonne sonore contemporanei, e d'altra parte il suo nome è ormai leggendario. Poi, da lodare senza riserve le prove dei due protagonisti. Luca Zingaretti magistrale, ottimo come sempre, capace di far percepire allo spettatore tutte le sfumature (anche minime) del suo complesso personaggio. Davvero bravo. Che dire di Christian De Sica? Fermo restando che il sottoscritto è un feroce nemico di qualsiasi cinepanettone e della relativa cialtronesca deriva di recitazione, io ho sempre apprezzato l'istrionismo vivacissimo e il formidabile senso dello spettacolo di Christian che, nessuno può negarlo, è un perfetto "animale da palcoscenico". E bisogna dare atto a Pupi Avati di aver saputo "tirare fuori" da De Sica un'anima drammatica che ci era finora sconosciuta. Attenzione, che qui non siamo di fronte alle scelte bislacche e poco convincenti  tipo quella di Ezio Greggio in un precedente film: no, qui Christian funziona sul serio ed è credibile in questo ruolo. Anche se -diciamolo- può fare di meglio. Per adesso apprezziamo dunque questa scelta di mostrarci le sue vere qualità d'attore che sono ben altre rispetto a quelle di un cinema natalizio da barzelletta. Ecco, esauriti gli aspetti positivi, addentriamoci -armati col machete dell'ironìa- in questa giungla avatiana, popolata di belve che fanno sorridere per la loro inconsistenza. Procediamo per ordine sparso, che tanto, ovunque scopriamo una carta, troviamo a colpo sicuro qualcosa di grottescamente ridicolo. Partiamo per esempio (ne vogliamo parlare?) dal fuori-sincrono che è a tratti rilevabile? Per fortuna, superando una sorta di omertà della critica che ha taciuto di questi dettagli, qualcuno lo ha evidenziato, puntando il riflettore su una serie di (incredibili) problemi tecnici, tutti derivanti dall'ostinazione di Avati a voler essere prolifico, a fare troppi film in un tempo irragionevole, col chiaro risultato che in postproduzione si "tira via" e, andando di corsa, si producono film con difetti evidentissimi (tipo un ri-doppiaggio piuttosto scarso) che un regista affermato e celebrato come Avati non si dovrebbe poter permettere e -anzi- di cui si dovrebbe vergognare! Poi ci sono altri difettucci qua e là di cui nessuno parla (chissà poi perchè). Nelle scene in auto, per esempio, si ha come l'impressione che siano state girate con la tecnica che si usava negli anni '50, con un ridicolo "effetto sovrapposizione". Ma un pubblico "da multisala del sabato sera", di bocca buona, a questi dettagli mica ci fa caso, per fortuna di Avati. Andiamo pure avanti, e indaghiamo su certi personaggi scritti coi piedi, primo fra tutti quello interpretato da Laura Morante, qui ai suoi minimi storici. Ecco, io credo, scusate l'espressione aggressiva, che qui Avati si sia bevuto il cervello. Questa specie di cantante folk isterica e sfigatissima è uno dei personaggi più brutti, assurdi e terribili che mai mente di sceneggiatore abbia partorito. Il problema è che tutti (dico TUTTI) i personaggi minori (da Pino Quartullo pilota d'elicottero ad Alessandra Acciai donna eccentrica scesa in politica) fanno letteralmente rivoltare lo stomaco per quanto sono schifosetti e soprattutto ridicoli oltre ogni sopportazione. E che dire del "povero" Massimo Bonetti o della ragazza che lavora nella multisala e che diventa improbabilissima fidanzata di Baldo? Insomma: non c'è un solo personaggio che si salvi o che generi un minimo di simpatica credibilità. Zero. Senza poi soffermarsi su certe "trovate" che lasciano a bocca aperta qualunque cinefilo. Peschiamo a caso. Che senso hanno quei 50 secondi scarsi in cui si vede cantare Omar Pedrini? marchetta o cammeo? (Pedrini, eccone un altro che s'è bevuto il cervello. Omar io l'ho conosciuto personalmente quando era in possesso delle sue facoltà mentali, quando interrompeva i concerti dei suoi Timorìa per declamare -emozionato- poesie di Majakovskij. Ora è un poveraccio che, complice la frequentazione di quella "intellettuale" di Eleonoire Casalegno, va ad esibirsi alle feste della Lega proponendo una sorta di rock in stile "ballo-del-qua-qua"). E poi, ancora, una delle cose che più mi hanno infastidito. Che senso ha la "trovatona" di attribuire al giovane Baldo la caratterizzazione secondo cui "uno studente del DAMS vuole mettere in scena un film horror-trash"? Attenzione, qui si va oltre lo stereotipo, qui si arriva ad offendere un intero popolo di studenti DAMS. Voglio chiarire. Molti studenti del DAMS sono effettivamente antipatici per la loro deriva fighetta e furbescamente saputella, ma io mai mi sognerei di raffigurarli col tipo di progettualità del giovane Baldo, il quale insegue un progetto a base di cannibalismo-splatter che se lo vediamo come barzelletta okay, ma il problema è che nel film esso rappresenta un'idea vera, un'idea che vorrebbe assumere un carattere di tipicità nel tratteggiare uno stereotipo. E poi, siccome un'etica ce l'ho anch'io, preferisco sorvolare sul volto devastato della povera Sydne Rome (dal botox? dai lifting? da che?). Quanto poi al debuttante Nicola Nocella, non vedo dove stia tutta questa ostentata "rivelazione cinematografica"....a me sembra un caratterista come tanti, e nemmeno uno dei migliori. Veniamo al sodo. Cosa si proponeva il regista? Voleva indignare (vedi capitolo corruzione)? Non indigna. Voleva commuovere (vedi rapporto padre-figlio)? Non commuove. Voleva divertire (vedi Baldo ciccione-tenerone)? Non diverte. E con questo, per me il capitolo è chiuso.
Voto: 4

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