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Nightmare

Regia di Samuel Bayer vedi scheda film

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La recensione su Nightmare

di amandagriss
2 stelle

Si stava meglio quando si stava peggio

In principio fu lui, il famigerato Michael Bay a lanciare il sasso in quella palude putrescente che era il cinema horror alla fine degli anni ’90. Certo, qualcosa nell’aria stantìa era presente: riflessioni autoironiche sul genere (Scream ad esempio), piccole realtà che resistevano mentre altre si stavano velocemente imponendo fino al punto da sovvertire -alla radice- le ‘correttissime’ regole (in primo luogo visive) di un genere considerato (a più riprese nella storia del cinema) ‘morto e sepolto’, oltretutto sempre più inabissato dall’onda tsunami dell’astratto horror orientale, a lungo andare stancante e pesantemente indigesto. Fu lui, dunque, (di certo il più prolifico e il più ‘visibile’) con un colpo di genio (aposteriori discutibilissimo) e la sua Platinum Dunes a riossigenare l’asfittico panorama filmico di paura e risollevare le sorti del più tosto horror movie occidentale semplicemente riproponendolo, in una confezione visivamente nuova che fosse al passo con le odierne realtà tecnologiche applicate al cinema. Un ritorno alle origini, con tanto di rimessa a lucido. Purtroppo (per noi), il nobile e gravoso operato di codesta casa di produzione si è rivelato essere un modo subdolo e furbastro di rimpinzarsi velocemente le tasche -periodo d’azione 2003/2010-, il cui target di riferimento era il ‘facile’ pubblico dei giovanissimi che, non avendo vissuto direttamente i tempi d’oro del new horror, avrebbe potuto così riviverli in tempo reale con i suoi remake-surrogato, e quello dei meno giovani, di cui si sarebbe assicurato il beneplacito contando sull’effetto nostalgia canaglia (avendo avuto privilegio di godere degli originali al cinema o al passaggio in prima tv o seconde -sempre più rare e tagliate- visioni) e sul lungo digiuno osservato ‘per forza’, che questa ‘rispolverata’ delle vecchie glorie avrebbe provveduto a scacciare via facendoli cullare nell'illusione di ritrovare quella stessa magia che un tempo li aveva stregati. Queste almeno le intenzioni e previsioni, che hanno comunque sortito l’effetto voluto, nonostante non sia mai mancato il persistente sospettoso sesto senso sul pericolo di incappare in una scottante fregatura, ardente come un’insegna al neon. E nei fatti non smentito.

Partito bene con lo scorretto remake del capolavoro di Tobe Hooper Non aprite quella porta (2003), che fa a pezzi l'irritante buonismo dei nostri tempi, il progetto restyling ha mostrato le prime falle con l'asettico Amytiville horror (2005), seguitando a scavare abissali voragini da quelli che inizialmente erano ‘solo’ buchi neri, in cui sprofondare vertiginosamente col patinato femminista The Hitcher (2007) che fa tanto girlpower alla maniera tarantiniana, giusto per essere al passo coi tempi. Per continuare, poi, la sua rovinosa irrefrenabile caduta libera con l'ennesima sbiadita fotocopia munita di pilota automatico del niente affatto indispensabile Venerdì 13 (2009). Accanto ai danni apportati da Mr. Fracassone & Co, bisogna (per una questione di equità e correttezza) annoverarne altri di disastri, di media e grande entità, partoriti da altrettante menti eccelse con un occhio sempre puntato al facile (poco onesto) guadagno: The Fog (2005) The omen, Chiamata da uno sconosciuto, Black Christmas, Il Prescelto (tutti del 2006), L’ultima casa a sinistra (2009) fino all’irrilevante fastidiosa orripilante presa per i fondelli Evil Dead (2013). Non mancano, però, le perle rare, i fiori nella spazzatura debordante, quali Le colline hanno gli occhi (2006) di quel genio d’oltralpe Alexandre Aja, capace di amplificare e potenziare l’opera originale di Wes Craven (1977), che i mezzi dell’epoca e il low budget non avevano permesso, o il gustosissimo L’Alba dei morti viventi (2004) di Zack Snyder, che ripropone lo zombie movie romeriano aggiornandolo in quegli aspetti ‘comportamentali’ (rapida trasformazione, rabbia furiosa, velocità da provetto corridore) riscontrati per la prima volta nel bellissimo 28 giorni dopo (2002) di Danny Boyle. Ma torniamo alla Platinum Dunes ed i suoi rifacimenti. Come  poteva mancare all’appello -vistosi già scippare dalle sue nefaste grinfie l’Halloween di John Carpenter, 1979, da quel talento feroce che è Rob Zombie- A Nightmare on Elm Street (1984) di Wes Craven, tra i capisaldi del new horror ’80? E, infatti, il suo remake non si è fatto attendere, collocandosi anch’esso nell’infelice quadro della disperazione più nera di questi fallimenti ‘artistici’ da destinare senza pietà e rimpianto alcuno al macero. Questo nuovo Nightmare (2010) poteva rappresentare per la Platinum Dunes il momento del riscatto, la chiave di volta nel suo arduo addentrarsi (alla ceca) tra i fascinosi e ben strutturati meandri di quel solido (artigianale) immaginario orrorifico degli anni addietro. Davvero una ghiotta occasione, purtroppo abortita, per lavorare, valorizzandolo, sul potenziale visionario del film originale (comunque già altissimo allora) che era e resta un’efficacissima rappresentazione della dimensione onirica scaraventata nella realtà, nel vissuto quotidiano di un gruppo di adolescenti i cui incubi, rigorosamente a misura di ragazzo (circoscritti al liceo frequentato, al proprio quartiere, alla propria casa e cameretta), trasudavano angoscia e terrorizzavano non poco. Realtà e relativa proiezione nei sogni fin troppo grandi, troppo estesi (intesi come luoghi fisici), fin troppo poco personali e credibili per appartenere ad un adolescente, che depotenziano la forza della messa in scena, appiattendo e neutralizzando l’intero racconto e in special modo i passaggi (nell’opera a monte di rara suggestione) tra il vigile stato di veglia e quello indifeso del sonno. Enfasi spettacolare caricata al massimo eppur vana, il cui unico risultato registrato è l’irritazione oltremisura dello spettatore, conscio di essersi fatto raggirare come l’ultimo degli sprovveduti da un ingannevole quanto infido amarcord, addolorato e prostrato dinanzi all’ennesimo tonfo assoluto, l'ultima (pa)tacca, in ordine di tempo, da aggiungere all'impietosa lista di pellicole dell’orrore 'riscoperte' e (relativamente) premiate al botteghino. In questa versione aggiornata e ‘ripulita’ dell'uomo nero con cappellaccio, maglione a righe verdi e rosse, lame di rasoio saldate su un vecchio guantone da baseball ed una faccia orribilmente sfigurata, la tensione pur presente provoca stentati sussulti, la paura è ai minimi storici, gli straordinari inarrivabili momenti gore/splatter, che chiunque conosca il 'vero' Nightmare pretende/crede/spera di (ri)gustare, si perdono in autocensure malamente camuffate  —  l'horror che sceglie di esprimersi attraverso lo strazio della carne ed il rosso acceso del sangue non deve temere di sporcarsi le mani! — , le psicologie dei personaggi (bambocci pallidi ed emaciati, secondo l'imperante tendenza Twilight, che nulla hanno dei veri adolescenti) sono da diagramma piatto come ben dimostra la cura riservata ai dialoghi, inascoltabili, dall’involontario effetto comico-demenziale. In un marasma di noia e pseudo angoscia fanno capolino un paio di discrete trovate non proprio originalissime (il nipponico massacro on line e il cruento epilogo, comunque non così inquietante come quello che chiudeva, anzi ‘sospendeva' il film dell’84) e una carina battuta ad effetto: “Oh Dio!” — “No solo io!”. Al di là delle scopiazzature varie (in prima linea Carrie, lo sguardo di Satana, 1976, di Brian De Palma), su cui Samuel Bayer ha costruito questo scialbo compitino, l'elemento più intollerabile è rappresentato dalla totale assenza del discorso sulla problematicità e complessità dell’età adolescenziale, che nel film di Craven era fondamentale e ben si traduceva nelle pulsioni sessuali dei ragazzi e nell’incomunicabilità tra genitori e figli (i primi assenti e distanti, incapaci di capire o accettare ‘l’incubo reale’ vissuto dai secondi). A questo aggiungasi la categorica e ottusa negazione dell'esistenza del concetto di Male, di cui invece il papà di Freddy era pienamente consapevole tanto da servirsene per descrivere la realtà socio-familiare (in questa come in una qualunque cittadina della provincia americana) del suo gioiello: la madre alcoolista di Nancy, la forte e determinata protagonista, quella di Tina che trascura la figlia per il compagno di turno mentre il suo ragazzo è un delinquentello noto alla polizia locale. Lo stesso killer, un maniaco ladro e uccisore di bambini, non è un ‘essere’ venuto da lontano bensì un uomo del posto, un loro concittadino. Inoltre Craven nel suo film faceva parlare il professore di letteratura di Nancy (in una delle scene che più restano impresse) della cancrena shakespeariana, ovvero del marcio che si annida nell'essere umano generando mostri. Facendo di Frederick Krueger (solo nei capitoli successivi si passerà al più gigionesco vezzeggiativo Freddy) la nostra metà oscura, la materializzazione di universali paure ancestrali nonché un moderno babau che si nutre delle inquietudini e turbamenti delle sue vittime. Il nuovo protagonista delle macabre filastrocche infantili, che ha il volto del pur bravo Jackie Earle Haley (l’ultima sua apparizione, per il momento, in Lincoln di Spielberg) non è nulla di tutto questo e non arriva neanche lontanamente ad eguagliare la sinistra postura sghemba ed il ghigno sadico del nostro prediletto Robert Englund. E perfino l’elaborato make up dell’originale rimane tutt’oggi il migliore in assoluto (alla faccia degli effetti speciali avanzati!). In definitiva un filmetto insulso, superfluo, assolutamente inutile e totalmente sbagliato, come volevasi dimostrare.

Se prima uno sbadiglio faceva tremare, ora è solo il segno di sogni grassi e tranquilli.

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