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Fratelli in erba

Regia di Tim Blake Nelson vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Fratelli in erba

di Marcello del Campo
6 stelle

 
 Gli studenti pendono tutti dalle labbra del professor Billy Kincaid: il Simposio di Platone mantiene inalterato il suo fascino, l’idealismo è il frutto acerbo della gioventù, il tempo della delusione è la vecchiezza.
Spiega Kincaid:

… un gruppo di cervelli locali si era riunito, è già stato servito il víno, le idee volano rapide e furiose, il dibattito è in pieno svolgimento.

I ragazzi sono estasiati, le ragazze mangiano con gli occhi Billy Kincaid.

Socrate ha la parola. Chi entra? Alcibiade. Ubriaco, di bell'aspetto, innamorato senza speranza del suo maestro, Socrate. E per l'unica volta durante tutti questi dialoghi non è Socrate ad avere l'ultima parola, bensì Alcibiade. Perché? Perché la passione, come dice Platone, è fondamentalmente e spietatamente umana e il meglio che possiamo sperare di fare è dominarla attraverso una ferrea disciplina. Per Socrate una vita sana è basata su una costante attenzione all'individuo per circoscrivere queste forze che indeboliscono, confondono la comprensione del mondo circostante. Socrate ci esorta a uniformare le nostre vite a questo autocontrollo rinviando ogni momento di debolezza. Socrate riconosce ciò che ogni filosofo e religione nella storia del mondo, da Platone ad Aristotele, dagli epicurei agli stoici, dagli ebrei, ai cristiani, ai buddisti, hanno osservato che l'equilibrio necessario per una vita felice è illusorio. E col nostro bel modo di pensare siamo certi di ottenerlo, fingeremo di essere Dio e ci schianteremo. Come Icaro che brucia sul mare.

La classe esplode in un’ovazione, un professore come Billy Kincaid non lo trovi facilmente: affascinante, disponibile, misurato come Socrate. Tanto affascinante che, dopo la lezione, una ragazza entra nel suo studio, si spoglia e chiede di essere penetrata. Billy resiste: non ha parlato durante la lezione di ‘ferrea disciplina’?
Billy non ama gli eccessi, è fuggito di casa dodici anni prima per non dimorare insieme al suo folle fratello gemello Brady e alla madre Susie Kincaid, devota adepta del culto post-hippy.
A dire il vero, casa Kincaid era una casa abitata da geniali fusi di testa, da nonno Kincaid a papà Kincaid, morto l’uno, scomparso nel nulla l’altro. Ma, a tenere vivo il lato eccentrico lì, a Little Dixie, Tulsa, (Oklahoma) basta Brady, rimasto solo dopo che Susie ha deciso di ricoverarsi in un ospedale dove le permettono di fumarsi tutte le canne che desidera.
Billy non ha nessun desiderio di tornare a casa da quei rozzoni, lui ha i suoi classici del pensiero da leggere e commentare, i saggi da pubblicare, è famoso, gli manca tutto di ciò che noi chiamiamo ‘vita’, ma vuoi mettere Nietzsche e La nascita della tragedia, Apollo, Dio della ragione e l'armonia e Dioniso, il dio dell'ebbrezza con il sole rovente e la sabbia di Tulsa, i bicchieroni di birra al bar, le ballate di John Prine? Non c’è paragone. Ma se l’ebbrezza è chiusa nei libri, e il rapporto con le donne è di tipo scolastico (l’uso provocatorio della perifrastica passiva!), sfuggirà per sempre a Billy la bellezza di una donna che declama: “S'insinua sotto le membra, per un suono interno/Le orecchie rimbombano/gli occhi si annebbiano…”. Va bene Catullo, purché l’eros resti prigioniero delle convenzioni ‘socratiche’.
Brady è diverso, assomiglia alla madre e al padre metamfetaminico ignoto. Per carità, Brady fuma parecchio, commercia in droga leggera, niente cocaina né eroina, niente da scaldare in un cucchiaio e iniettarselo nel braccio, a volte la buona marijuana, questa sì, solo Oklahoma Brown, pura al 100%.
Ma Brady sta per cacciarsi nei guai: qualcuno vuole ucciderlo. Oppure Brady vuole uccidere qualcuno. Si tratta di Pug Rothbaum, un trafficante di droga cui Brady deve una somma enorme. Da ragazzi, i gemelli Kincaid si sono scambiati l’uno con l’altro i ruoli per gioco. Ora è in gioco la vita del dissennato Brady.
Billy parte per Tulsa mal volentieri. Arrivato a destinazione, capisce che Brady non è cambiato, neppure la madre è cambiata. L’uomo dell’atarassia socratica deve fare i conti con una questione criminale. Le citazioni filosofiche non sono di casa in Oklahoma, a niente servono l’esistenzialismo heideggeriano e le glosse di Lacan quando la morte è al lavoro. Il mito di Timothy Leary, il viaggiatore di terra e della galassia, si frantuma e si dissolve a favore dell’ananke in un finale che consegna il cupo presente alla verità di antiche suggestioni:

Diogene Laerzio ci ha consegnato questo scritto sul pensiero del grande filosofo Epicuro a proposito della morte: ‘È irrazionale temere un evento che quando accade noi non esistiamo. Durante la nostra esistenza, la morte non c'è. Inoltre è irrazionale temere la morte. Si potrebbe allora anche, argomentando con Epicuro, aver paura della nascita.”.
 
Diretto dall’attore e regista Tim Nelson Blake, nato a Tulsa, (che qui si ritaglia la parte di Bolger, l’amico in droga di Brady), Fratelli in erba, nonostante rubi il titolo [Leaves of Grass è il titolo originale del film] al poema di Walt Whitman, non è un omaggio elegiaco alla wilderness, anche se non mancano citazioni del poeta.
Film bizzarro, affascinante, colto ma mai sentenzioso, iniziato come una brillante commedia, con un plot che molto deve all’ironia dei Coen (non a caso tra i ringraziamenti ci sono quelli a Joel Coen), Fratelli in erba slitta progressivamente nella dark comedy, ma Nelson Blake non ha la mano ferma nel dosare il passaggio dalla prima alla seconda, e il finale pulp arriva come un fulmine a ciel sereno, posticcio, per nulla convincente.    
Infine, il film poggia tutto sulle solide spalle di Edward Norton che interpreta i due fratelli Kincaid, sdoppiandosi tra gravitas e laevitas, filosofemi e baracconate con grande mestiere. Una menzione speciale per Susan Sarandon, convincente mamma hippy e per l’irriconoscibile Richard Dreyfuss nella parte del rabbino criminale Pug Rothbaum.
 
 

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