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Il concerto

Regia di Radu Mihaileanu vedi scheda film

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La recensione su Il concerto

di laulilla
8 stelle

Un piacere rivederlo, dopo tanti anni dall'uscita, ancora molto gradevole per la leggerezza del racconto che evita il rischio del mélo troppo spinto, mantenendosi nei confini della nostalgia sorridente e non priva di grazia. Da segnalare un doppiaggio penosissimo, quasi grottesco.

 

La caduta rovinosa della Russia sovietica aveva lasciato molte macerie e molte ferite: dalle pacchianate kistch dei nuovi ricchi mafiosi, ai sogni infranti di chi ci aveva creduto, alle vite spezzate di chi si era opposto.

Alle nequizie del regime non era subentrata un’organizzazione più giusta della società, anzi, per molti la perdita di ruolo si era cristallizzata: i ruoli non erano rimasti quelli di prima, e non era facile risalire in una società di furbi e violenti, né spesso si era disposti a lottare per emergere nuovamente, essendo svanita la presenza amata e solidale di chi avrebbe motivato quel tentativo.

In questo quadro di degrado, di cinismo e anche di doloroso disincanto si svolge la vicenda raccontata dal film, che ha per protagonista il grande maestro Filipov, direttore della prestigiosa orchestra del Bolshoj, cacciato dagli uomini di Breznev, insieme agli orchestrali ebrei che suonavano con lui. La storia è quella di un’avventuroso tentativo di risalita del direttore Filipov, dei suoi amici di un tempo e della multiforme realtà del mondo variopinto di tradizione yddish, che si conclude come una bella fiaba, con i ricongiungimenti dopo le dovute agnizioni e i giusti trionfi parigini.

 

l film è molto di più di una fiaba, però,  innanzi tutto perché contiene i ritratti affettuosi e teneri degli artisti dimenticati da tutti, ormai abbandonati al loro destino di "ultimi”, che tuttavia hanno conservato la loro dignità, grazie all’amore per la musica, e che sanno persino offrire un realistico modello di organizzazione sociale.

 

 

L’orchestra – ce lo aveva ben spiegato Fellini – è una bella metafora della società, che, abbandonando le pretese di diventare per sempre perfetta, si dovrebbe accontentare di piccoli progetti per la cui riuscita, di volta in volta, sono decisivi tutti, uomini e donne di ogni condizione e provenienza, purché accettati e guidati a dare il meglio di sé, un po’ simile a quella che attraverso un viaggio avventuroso vorrebbe arrivare ai confini russi in Train de vie, l’altro bellissimo film dello stesso regista.

Sebbene l’apparenza sia quella di un incerto e variopinto insieme, un po’ melting pot, un po’ armata brancaleone, la sua coesione è assicurata dall’unità degli intenti, dalla capacità di sorridere dei propri difetti e dal riconoscere l’umanità imperfetta negli altri.

Mihaileanu si conferma davvero geniale nell’invenzione di racconti  in cui si accompagnano storia e immaginazione, in cui l’arte dell'analisi retrospettiva assume il carattere della struggente recherche del tempo perduto, senza che ciò, però, comporti un eccessivo patetismo.

Il sorriso, che nasce dall’indulgenza empatica verso i difetti umani, è dietro l’angolo e la cultura cosiddetta minore dei popoli dimenticati è lì a manifestare tutta la vitalità e l’energia che la contraddistinguono.

 

Bella regia, dunque, e ottima interpretazione di tutti gli attori, in modo particolare di Aleksei Guskov, grande e sensibile direttore d’orchestra; bella e inattesa la buffa citazione della Strage di mafiosi - dopo San Valentino - da  Billy Wilder (A qualcuno piace caldo), testimonianza della ricca e ben assimilata cultura cinefila del regista rumeno.

 

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