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Fratellanza. Brotherhood

Regia di Nicolo Donato vedi scheda film

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La recensione su Fratellanza. Brotherhood

di spopola
8 stelle

L’ispirazione  è venuta al regista (per sua stessa ammissione) dalla visione di un documentario di Rosa Von Praunheim Men, heroes and gay nazis, che lo aveva particolarmente impressionato (Mi sembrava che una storia del genere toccasse elementi ed aspetti interessanti anche e soprattutto sul tema universale dell’amore, che potevano essere raccontati seguendo un punto di vista il più possibile originale,  ha dichiarato nel corso di una intervista a caldo subito dopo la premiazione a Roma).
E’ straordinaria soprattutto (ed è la qualità che salta immediatamente all’occhio) la capacità di Donato, qui alla sua opera prima, di rappresentare l’attrazione e il sentimento. Lo fa con un consumato, pregevole mestiere attento soprattutto ai particolari e alle sfumature (i corpi, gli sguardi) che ci restituisce pienamente l’innocenza pudica di una passione, ed è la cosa che più ti prende, poiché il neo regista dimostra di sapere veramente quali tasti si devono toccare per sollecitare (in positivo) le emozioni dello spettatore e liberarlo così dalle sue possibili “reticenze” e neutralizzare ogni resistenza residua, tutti elementi questi,  che sussistendo, gli impedirebbero invece di penetrare davvero l’anima più profonda e nascosta dell’opera.
Se vogliamo essere ipercritici infatti, non ci sono in effetti elementi di assoluta originalità non solo nei concetti espressi, ma anche nella provocatorietà del paradosso messo in  piedi dentro una anomala cornice estremizzata che è poi quella dell’omofobia razzista più bieca e radicata, e in una condizione che riproduce la situazione tipica di una struttura chiusa tutta coniugata al maschile, rappresentando così qualcosa che si avvicina a ciò che avviene  con frequenza maggiore di quanto si possa immaginare – anche se si preferisce tacerlo o non ammetterlo – proprio negli ambienti sportivi e militari oltre che in quelli carcerari, gli unici questi per i quali si è disponibili a riconoscere l’esistenza di una degenerante “depravazione”, indotta però da ipotetiche “necessità oggettive”. Per l’ambientazione, gli illustri precedenti di riferimento, pur in un differente contesto sociale, potrebbero essere  ricercati soprattutto in American History X di Tony Kaye, interessante e approfondito studio sociologico sullo sviluppo aggregativo (e il suo “spregiudicato”utilizzo a fini politici) dell’odio razzista nelle grandi aree metropolitane e dintorni, oltre che nell’inquietante The Believer di Ryan Goslin (ma anche Nazirock  presenta qualche interessante punto di contatto per le scene del concerto dove si scatenano gli istinti di una forsennata esaltazione non solo musicale condivisa dal branco), mentre l’insolita attrazione carnale che diventa una appassionata storia d’amore “proibito”, ha a sua volta un eccellente precursore, pur se drammaticamente meno definito, in My Beautiful Laudrette  di Stephen Frears (anche in quel caso, un’attrazione e un innamoramento nasceva fra due ex compagni di scuola, un pakistano parzialmente integrato e uno “stanziale” di razza bianca, punk e razzista, due entità disadattate e solitarie che una volta isolate – emarginate - dai propri rispettivi clan a causa di un’amicizia non accettata né gradita, si troveranno loro malgrado, a scoprire e condividere il represso sentimento dell’attrazione coniugata al maschile).
Dunque anche per Donato il nazismo diventa l’occasione per raccontare una storia ambientata in un contesto estremo capace di far esplodere le contraddizioni e di mettere a nudo, facendola finalmente venire a galla, proprio l’essenza reale del sentimento, anche quella più nascosta ed avversata, ed è merito delle eccelse qualità della rappresentazione  (scrittura e immagini) se l’esito risulta essere positivamente attendibile ed empaticamente coinvolgente. E’ il linguaggio esplicitamente creativo utilizzato che riesce infatti a rendere credibilissima l’esplosione quasi improvvisa del sentimento (ma i “segnali” ci sono, ben disseminati nel percorso)  senza  alcuna necessità di dover ricorre a inopportune concessioni voyeristiche, ed è proprio la maturità stilistica del regista e la sua capacità di dominare con sapienza la materia incandescente che ha scelto per il suo esordio sul grande schermo, a fare davvero la differenza.
A convincere di più sono ovviamente le sfumature del copione (Questa è la mia vita, questa è la mia famiglia, questi sono i miei amici afferma Jimmy,  ribellandosi per un istante alla sua nascente, travolgente passione che lo rende improvvisamente “nemico” del suo stesso ambiente; e ancora: I froci sono contro natura , detto e ribadito persino dopo aver praticato direttamente  quel “peccato di sodomia” riscattato dall’amore, ma ancora non ammesso né riconosciuto pienamente), ma anche  l’efficace direzione degli attori (fra tutte la scena della doccia, dove gli sguardi pieni di desiderio di Lars dicono molto di più di una dichiarazione esplicita e i corpi parlano da soli senza alcuna necessità delle parole nel rappresentare l’infuocata attrazione della  carne, o quelle delle tenerezze implicite dopo i pestaggi subiti, che esternano l’appassionata dedizione e la reciproca voglia di appartenersi fino in fondo), oltre che il sapiente utilizzo della cornice ideologica, in un contesto dove il tema centrale rimane – è bene non dimenticarlo - quello della capacità dei sentimenti di emergere e sopravvivere nonostante tutto, che non sarà forse né nuovo né originale, come si è visto, ma che  è qui esposto in maniera convincentissima, davvero come meglio non sarebbe possibile fare.
In effetti, quella che poteva apparire una forzatura “di comodo” difficilmente riproducibile senza perdere di credibilità in una accettabile realtà oggettiva, o peggio ancora  come una provocazione studiata a tavolino e messa in piedi apposta per “fare scandalo”, si è trasformata invece grazie al talento di Donato,  in un convincente scavo psicologico delle insicurezze e delle fragilità fra desiderio e passione, oltre che in un’opera stilisticamente compatta e singolarmente compiuta nonostante la giovane età del suo autore, dai toni tenuti costantemente sotto controllo, dove le sotterranee pulsioni pure presenti di rivalsa e ansia di affermazione, si estrinsecano e si esprimono con evidenza prioritaria all’interno di un contesto sociale, familiare e istituzionale, che seppure resta sullo sfondo, è comunque a sua volta ben definito e capace, fin dalle prime inquadrature, di farci perfettamente comprendere condizione e disagio di un disadattamento che riguarda entrambi i protagonisti della storia.
Parla dunque e ancora dell’annoso, irrisolto problema dell’omofobia, la sceneggiatura scritta con buone capacità introspettive da Rasmus Birch e dallo stesso Donato (e mettere in scena una coppia di omosessuali nazisti non era sicuramente un’impresa facile, né si poteva scommettere in partenza sulla sua riuscita). Ma l’equilibrio fra parole e immagini è perfetto, avvolgente e corposo al tempo stesso, appassionato ed essenziale, totalmente esente da sbavature compiaciute.  Il sapiente utilizzo della macchina da presa, fa lievitare il film fino a farlo diventare una storia d’amore come tante altre, universale e certa, ma non emblematica, né tantomeno inusuale o provocatoria, che coinvolge due persone al di là del sesso di appartenenza, che diventa fattore assolutamente secondario e non determinante se non per i conflitti esterni che fa emergere  e per le limitazioni imposte da una convinzione e un posizionamento ideologico fortemente reazionario. E i due protagonisti, grazie anche alla consapevole, partecipata qualità mediatrice degli interpreti che hanno il compito di rappresentarli sullo schermo (tutti davvero ottimi e pertinenti, risultano credibili proprio perchè confusi e reali,  verosimili e contraddittori come lo è ogni essere umano, persino incoerenti nei loro atti, simili e conformi a noi spettatori che osserviamo e partecipiamo alla storia dal buio della platea, perché anche noi come loro, siamo spesso  combattuti fra  “ragione e sentimento”, o ancor meglio, come ha scritto Cristina Borsatti,  spinti dalla doppia forza di istinto e ragione, mossi insomma da un insaziabile bisogno di amore, di appartenenza a un gruppo (in assenza di una famiglia vera e propria, lo diventano – surrogati  a volte pericolosi – una squadra, una truppa, un partito) e da un inconsolabile – insopprimibile – desiderio di uscire da una condizione di solitudine . Personaggi in definitiva incastrati in un’ambiguità di vedute e sentimenti che li rende umanissimi e che muta le contraddizioni in dramma.
Imprevedibile allora, ma non inaspettato, esplode  fra i due uomini un sentimento erotico/amoroso di particolare intensità emotiva che il tabù dell’omofobia rende ancor più travolgente. Ed ecco che all’asciuttezza del dramma, si contrappongono magnificamente potenti squarci lirici che si sublimano anche nell’incandescenza infuocata di due corpi assetati d’amore che solo nel quieto silenzio della notte trovano effettiva compensazione ai loro bisogni, divisi come sono di giorno dalla convenzionalità delle apparenze da rispettare, ma con in più la trepidazione costante di un pericolo incombente che grava su di loro, nell’essere consapevoli di non avere davvero un futuro certo: che succederà quando i camerati comprenderanno che i “diversi” sono fra loro? Sembrano chiedersi senza trovare adeguate risposte, più titubanti che impauriti però, poiché la forza del sentimento che li unisce è ormai incontrovertibile.  Un coinvolgimento totale dunque che in qualche modo li costringerà loro malgrado, soprattutto per quanto riguarda Jimmy, a scegliere da che parte stare nel bivio esistente che traccia un solco profondo difficilmente transitabile, fra ciò che  si sente e si prova da un lato (le ragioni del cuore), e ciò in cui  si è stati abituati a credere dall’altro.  Sembra quasi che si voglia così ribadire e riaffermare l’importanza prioritaria del pensiero individuale rispetto a quello collettivo che identifica il branco, che giustifica la liceità degli spostamenti comportamentali anche incongruenti,  perché (e cito ancora la Borsatti) se gli esseri umani fossero per natura immobili, ci sarebbe davvero poco da raccontare: ciò che conta sono le evoluzioni e i fatti che le producono, soni gli effetti che questi hanno sui personaggi,  sono gli eventi  che trasformano le cose e le persone.
In fondo allora le storie – ogni storia, dalla più complicata e imperscrutabile a quella più banalmente semplicizzata nelle sue elementari pulsioni,  è a suo modo un romanzo di formazione, come lo è appunto in buona misura anche quello che stiamo osservando seduti nelle nostra poltrona privilegiata nel buio ovattato della sala che ci ospita.
E se i toni, gli sviluppi, soprattutto nella parte finale, si inerpicano inevitabilmente nella direzione esplicita del melodramma (io personalmente avrei preferito una “secchezza maggiore” e il coraggio di “fermarsi”  un attimo prima, anche se poi Donato è bravissimo a recuperare in corner e a dare un magnifico senso emotivamente coinvolgente anche al ”dramma” in agguato - e le scene conclusive  riprendono tutto il necessario vigore, facendo passare in secondo piano la piccolissima “crepa” formatasi per quello slittamento verso la tragedia) è soprattutto nella parte centrale del racconto che il regista da il meglio di se, e riesce ad esprimere con particolare verosimiglianza, l'inquietante realtà che ha deciso di portare alla luce, anche se la negatività dei neonazisti (rappresentati qui dal Dnsb, il movimento politico della Danimarca ispirato al nazionalsocialismo tedesco) si esplicita da sola, non necessita certamente di sottolineature enfatizzati per evidenziare tutta la tragicomicità minacciosa della sua portata antistorica con i suoi principi fondanti di becero machismo dominante e dipendenza subordinata degli adepti, di inclusione (gli "eletti" ) ed esclusione (gli  “imperfetti”) nel clan e per quel sentimento totalizzante di “appartenenza” senza più alcuna via d’uscita una volta che ci sei entrato dentro, che dopo il reclutamento dovrebbe aspirare a far diventare “fratellanza” ogni appartenente al gruppo,  anche se in una aberrante concezione di ripugnante prevaricazione.
Ma la mina vagante dell’omosessualità, non importa se esplicitamente dichiarata o se soltanto, latente, il richiamo prepotente del sesso, anche quello cocciutamente “negato”, è in azione anche lì, in un ambiente all’apparenza protetto, e non ci sono repressioni, né movimenti politici reazionari o oltranzisti che possano davvero estinguerlo o disinnescarne la portata eversiva (lo dimostra la storia, lo dimostrano le epurazioni e i campi di concentramento e tutte le nefandezze che ne sono seguite, anche se delle persecuzioni verso gli omosessuali se ne parla molto meno di quelle perpetrate verso altre etnie e gruppi di appartenenza).
Anche questa è storia e “realtà” quotidiana però: incursioni punitive per dare risonanza mediatica al movimento  contro ogni diversità non “perché si è cattivi o malvagi”, tutt’altro (c’è un curioso dialogo su questa diatriba all’interno dell’opera), ma semplicemente perché non deve essere accettato ciò che si ritiene essere “innaturale”, se non del tutto “contronatura”, deve essere reciso alla radice quello che inquina la purezza della razza e del sistema.
E’ proprio questo concetto estremizzato di “pulizia purificatrice” che ci induce ad immaginare il peggio, perchè l’omosessualità, checché se ne dica, è ancora un tabù difficilissimo da digerire e  dopo quella delle religioni, delle ideologie e delle razze, ivi compreso il colore della pelle,  è forse la diversità (o presunta tale) che più spaventa e destabilizza,  perchè ci costringe ad interrogare il nostro inconscio, poichè come mise a suo tempo in evidenza il rapporto Kinsey, nessuna sessualità è veramente analoga in toto ad un’altra,  e per quanto riguarda l’inclinazione di genere, in una scala da uno dieci (ma le possibilità potrebbero essere molto più articolate e complesse) l’uno sta a rappresentare l’assoluta e totale eterosessualità dell’individuo…. Il dieci l’assoluta ed esclusiva  attrazione sessuale verso il proprio sesso, con nel mezzo tutta l’infinita gamma delle variazioni più o meno percepite o metabolizzate, ma a volte presenti almeno in un momento o in uno stadio della propria esistenza: difficile ammetterlo o diventarne davvero consapevoli… e allora è più facile assumere il ruolo “persecutorio” che ben conosciamo al fine di “esorcizzare” il pericolo o la tentazione.
Un’opera prima importantissima non priva di difetti, comunque, ma intensamente attraversata da magnetici lampi di assoluta e folgorante potenza narrativa. Come già detto, l’architettura del racconto è robusta, encomiabilmente trattenuta, persino pudica nella casta esposizione del desiderio  e dell’attrazione, il tutto realizzato con un appassionato occhio che “accarezza” più che “penetrare,” tanto da farci percepire davvero quel rapporto quasi elettivo,  per quello che effettivamente è e vuole rappresentare: un appassionato “chant d’amour”.

Perché la diversità fa paura (o meglio che cosa si intende per diversità).

Mi viene al riguardo in mente come necessaria fonte di supporto, proprio ciò che  Isherwood nel suo A single Man, fa dire a George nella lezione che fa ai suoi allievi a proposito della diversità, discernendo intorno al romanzo di Huxley Il mondo nuovo rispondendo a una domanda che gli pone lo studente Myron Hirsch (“Signore, qui a pagina 79, il signor Propter  dice che  la più stupida frase della Bibbia è  “essi mi hanno odiato senza ragione”.  Vuol dire con questo che i nazisti avevano ragione di odiare gli Ebrei? Huxley è antisemita?).
No (..) risponde il professore. No. Huxley non è antisemita. I nazisti non avevano ragione di odiare gli Ebrei. Ma il loro odio per gli ebrei non era senza ragione. Nessuno odia mai senza ragione… Senti, lasciamo stare gli Ebrei per questa volta, ti va? Qualsiasi atteggiamento si prenda, è impossibile discutere obiettivamente degli Ebrei al giorno d’oggi. Probabilmente non sarà possibile nei prossimi vent’anni. Quindi esaminiamo il problema in rapporto a un’altra minoranza, quella che vuoi, una piccola però, una che non sia organizzata e con nessuna commissione a difenderla (…) Ora ad esempio, le persone con le lentiggini non sono considerate  una minoranza da quelle senza lentiggini. Non sono una minoranza nel senso in cui la intendiamo. E perché non lo sono? Perché una minoranza è considerata tale soltanto quando costituisce  una qualche minaccia, vera o immaginaria, per la maggioranza. Qualcuno non è d’accordo?  Se non lo siete , domandatevi solo: cosa farebbe questa particolare minoranza se all’improvviso, dall’oggi al domani, diventasse maggioranza?  Capite cosa intendo? Bene! Se lo capite, pensateci su! Magari adesso insorgono i liberali che includono più o meno tutti voi, credo e dicono: le minoranze sono persone come noi! Certo, sono persone, non angeli. Certo, sono come noi  - ma non esattamente come noi; ecco  il fin troppo facile stato dell’isteria liberale, per cui cominci a raccontarti  e a far finta di crederci,  che è impossibile scorgere  differenze fra un negro e uno svedese. (…) Dunque prendiamone coscienza: le minoranze sono persone che probabilmente  guardano agiscono e pensano diversamente da noi e hanno difetti che noi non abbiamo. Può dispiacerci  come guardano e agiscono, e possiamo odiare i loro difetti. Ed è meglio ammettere che non ci piacciono e che li odiamo invece di cercare di impiastricciare i nostri sentimenti con un sentimentalismo pseudo liberale. Se siamo sinceri con i nostri sentimenti, abbiamo una valvola di sicurezza, in realtà  rischiamo meno di promuovere  le persecuzioni (…) Ora supponiamo che questa minoranza venga perseguitata – non importa perchè – per ragioni politiche, economiche, religiose, psicologiche – una ragione c’è sempre per sbagliata che sia – almeno così credo.  E, naturalmente, la persecuzione stessa è un errore, sempre;  sono certo che su questo siamo tutti d’accordo… ma, ed è il peggio, ora incorriamo in un’altra eresia liberale. Poiché la maggioranza persecutrice è abietta, dice il liberale,, è evidente che la minoranza perseguitata deve essere di una  purezza immacolata, altrimenti…. Vi rendete conto di quanto ciò sia insensato? Che giova se i cattivi sono protetti  dalle persecuzioni dei peggiori?  Tutte le vittime  cristiane nell’arena dovevano essere santi per forza? E vi dirò di più. Ogni minoranza ha il suo tipo di aggressione. Provoca assolutamente la maggioranza ad attaccarla. Odia la maggioranza – non senza causa, d’accordo. Odia anche le altre minoranze – perché tutte le minoranze sono competitive; ciascuna afferma  che le sue sofferenze sono le peggiori, e i torti che subisce i più neri. E più odiano, più vengono perseguitate, più malvagie diventano! Pensate che l’essere amati incattivisca la gente? Sapete che non è così. Quindi perché dovrebbe  renderli buoni  l’essere detestati? Quando siete perseguitati, odiate ciò che vi sta capitando, odiate la gente che lo fa accadere; vivete in un mondo di odio. Andiamo, non riconoscereste l’amore in persona, se lo incontraste – e qualche volta avviene! Sospettereste di quell’amore, lo avversereste.  Pensereste che c’è sotto  qualcosa – qualche motivo – qualche trucco…

Considerazioni di carattere personale a latere.
Chi ha paura del lupo cattivo? E’ questa l’amara considerazione che mi nasce spontanea nel considerare proprio il disagio provato nel dover prendere atto ancora una volta dell’incongruo trattamento riservato a questo interessante debutto che meritava a mio avviso un’attenzione di gran lunga superiore a quella che gi è stata invece tributata e della quale si è dovuto “accontentare”. Segno evidente che i tabù legati alla sfera sessuale soprattutto se riguardano rapporti “non conformizzati” come nel caso in esame , sono duri a morire, anzi, paradossalmente sembra che adesso stiano riprendendo persino un inusitato nuovo vigore, a giudicare dai fatti  con  cui dobbiamo fare i conti quasi ogni giorno, anche semplicemente leggendo i titoli dei giornali.
Non parlo evidentemente solo di una uscita in sala della pellicola estremamente ritardata rispetto al momento più propizio,  che sarebbe stato quello concomitante (o il più vicino possibile)  con la positiva accoglienza ricevuta all’ultimo Festival di Roma, che gli è valso anche l’ambito riconoscimento del Marc’Aurelio d’oro quale migliore opera, e relegata invece nella stanca stagione dei saldi estivi, per il cinema d’autore un periodo particolarmente infausto, quest’anno ulteriormente aggravato dall’invadenza mediatica dei mondiali di calcio che tutto e tutti coagulano intorno al pallone (solo un po’ mitigata  nei sui devastanti effetti dalla prematura uscita dai giochi dell’Italia, ma ugualmente prioritaria nelle aspettative e nei desideri maggioritari di ogni paese) lasciando  davvero pochissimo spazio ad ogni altra cosa soprattutto, se connessa agli impervi sentieri delle rappresentazioni legate alla sfera della cultura e dell’arte. Mi riferisco infatti, nel deprecare il mio disappunto, soprattutto all’assurda decisione – questa davvero ancor meno comprensibile, inaccettabile – di programmarlo con il divieto ai minori di 14 anni.
Perché davvero in questa pellicola che vorrei definire come una insolita e inconsueta declinazione dei sentimenti (e non di una ”perversione”, come qualcuno sembrerebbe voler dare ad intendere con questo discutibilissimo divieto), non c’è davvero nulla di così devastantemente scandaloso da poter  turbare le coscienze, né di così terribilmente violento da impressionare i delicati palati dei giovani abituati da tempo a ben più agghiaccianti e incomprensibili nefandezze anche solo nei palinsesti televisivi delle fasce che si dovrebbero definire “protette”.
Una censura dunque che non può essere spiegata  dalla violenza (niente di così efferato e cruento da creare disagio, come si è detto), né tantomeno dal sesso (pudicamente esibito più nelle palpitazioni attrattive che nei crudi particolari - qui del tutto banditi  o trattati con  furente delicatezza poetica -della consumazione degli amplessi “carnali”)
Segno evidente che ci sono nascoste dietro ben altre ragioni non solo “repressive”, ma anche ideologiche, a giustificare e tenere in piedi una decisione così clamorosamente assurda.
Ma tant’è… questa è l’Italia… e questi sono gli italiani… già.. perché non possiamo mai nasconderci dietro un dito: quello che ci sta capitando anche sotto il profilo della comunicazione, non è un caso fortuito né una calamità: lo abbiamo cercato e voluto, non dico singolarmente,  questo è certo, ma poiché  come in ogni democrazia o presunta tale, è sempre e solo chi vince, comunque riesca a farlo, ad avere la ragione e il suffragio più generale e riconosciuto, non possiamo che fare un accorato mea culpa per non essere riusciti ad opporre la necessaria resistenza a questa nuova invasione barbarica (e anche questo è un inequivocabile segno dei tempi bui che stiamo attraversando).
Vietare dunque questo film  ai minori, ne spiega semmai meglio la “pericolosa” (per chi ha paura del lupo cattivo, naturalmente) forza del messaggio veicolato e la sua efficacia comunicativa, proprio per la sua capacità  di raccontare, evidenziandolo chiaramente, “lo stato effettivo delle cose” (quello cioè che stiamo vivendo), trasformandolo così ancor di più di quanto non lo fosse già di per sé, in un film necessario e imprescindibile.
Perché Nicolo Donato, 36enne cineasta danese di origini italiane da parte di padre. per il suo fortunato approdo al cinema di finzione dopo una non prolungata ma significativa gavetta fra corti e videoclip  anche socialmente impegnati (per Amnesty Internazional.), ha scelto non solo di raccontare la storia di due nazisti gay, ma anche di rappresentarci un preoccupato affresco di come va adesso il mondo (o dove purtroppo è ormai da tempo già approdato). E sorge drammatica di fronte all’impietoso racconto di una realtà che ci riguarda tutti da vicino, l’ammissione sconfortata di dover ammettere quanta ragione avesse Brecht nel metterci in guardia, nel finale de La resistibile ascesa di Arturo Ui, con quel grido che evidentemente è rimasto inascoltato (E voi, imparate che occorre vedere / e  non guardare in aria; occorre agire / e non parlare. Questo mostro stava, / una volta, per governare il mondo! / I popoli lo spensero, ma ora / Non cantiamo vittoria troppo presto: / il grembo da cui nacque è ancora fecondo)…
Il problema reale sta proprio nel fatto che noi nonostante la baldanza rassicurante dei propositi, forse non siamo poi stati molto bravi a vigilare davvero, abbiamo preso un po’ troppo sottogamba i messaggi inquietanti che da tempo erano palpabili constatazioni di un “tragico” ritorno  e non ci siamo accorti che quel ventre aveva da tempo partorito di nuovo se non proprio la belva, per lo meno il cancro dell’intolleranza montante che ne prepara l’avvento, che ormai aveva attecchito un po’ dappertutto, piantando le sue radici profonde dentro la società e il pensiero. E i mostri  sono lentamente cresciuti fra noi, assumendo le sembianze invitanti dei nuovi ministri del terrore e della disuguaglianza. Seminando le necessarie zizzanie, insinuando dubbi e provocazioni, ci hanno fatto diventare - volenti o nolenti - a nostra volta impliciti complici di tali obbrobriose posizioni retrive che siamo – nella migliore delle ipotesi – costretti a subire. Ed è proprio dal nord che ci arriva quello che verrei definire un messaggio che non lascia spazio alla speranza e che fotografa una terrificante realtà con la quale stiamo già facendo i conti anche noi se solo guardassimo con coraggio dentro lo specchio delle nostre incontenibili paure che ci spingono sempre più verso l’odio e l’intolleranza: le cronache di ogni giorno ci dicono infatti che stiamo scendendo rovinosamente la china e che ormai siamo arrivati davvero in fondo al precipizio… Vedendo quest’opera, sappiamo dunque già cosa ci riserba il futuro, visto che ogni giorno ci viene sottratto un pezzo di civiltà e di decenza, senza che nessuno di noi alzi davvero un dito nel senso “concreto” del termine. Anche se siamo comunque critici, ci è difficile anche ammettere che la situazione ci è davvero scappata di mano perché accettiamo come se niente fosse le intemperanze belluine della Lega, i rigurgiti fascisti negati persino da una Costituzione ormai da troppo tempo in bilico dei belligeranti figuri di Forza Nuova e dei deprecabili centri di pseudo aggregazione culturale di “CasaPound”  dietro ai quali si celano i più reazionari pensieri, contaminati da un concetto di vita e di rapporti - quello sì davvero avversabile ed eversivo – portato avanti al di là delle posizioni dei singoli, da un covo di facinorosi orfani del Nazifascismo, che sperano di poter ritrovare la necessaria onorabilità di facciata per nascondere la loro eversione, trincerandosi dietro il nome eccellente di Ezra Pound, straordinario e indiscusso poeta fra i più eccelsi del secolo, se si esamina sotto il profilo dell’arte, ma che nella vita – anche se ha pagato a caro prezzo le sue scelte – non è certamente del tutto assolvibile.

 

 

Sulla trama

La storia racconta di Lars, un ex sergente con una evidente insofferenza in corpo e qualche precedente di inquietante natura che, refrattario alle interferenze invasive di una famiglia petulantemente “progressista” ma spaventosa nella sua insipienza, passa quasi casualmente, ma con una buona dose di accesa curiosità conoscitiva, e nonostante  le sue idee fondamentalmente antirazziste (lo potremmo considerare un "anarchico dissidente),  a far parte di una squadra di neonazisti che vediamo subito in azione fin dalla prima scena, impegnata in un pestaggio ai danni di un innocente ragazzo gay alle prime esperienze di sesso. Frustrato e incompreso dalla famiglia (e forse con qualche scheletro nell’armadio di troppo)  Lars alle prime riunioni di quegli estremisti invasati,sembra essere poco più di un pesce fuor d’acqua che tende ad integrarsi velocemente-.
Racconta di Jmmy nazista “senza famiglia” ed evidenti radici, che di tale banda fa parte e ne è elemento primario, colui che organizza con particolare ferocia proprio i raid punitivi contro arabi e  omosessuali.
Intelligente,  Lars coglie immediatamente la stupida brutalità del branco, ma al tempo stesso rimane colpito dalla dedizione quasi selvaggia alla causa di Jimmy.
Superate le diffidenze da parte dei più ortodossi militanti suscitate spesso dalle sue dichiarazioni nichiliste e sorretto dalla stima del corpulento leader del gruppo che ne intravede le potenzialità, Lars ha così il privilegio di entrare a far parte della banda come membro effettivo, soffiando  il posto all’instabile e tossicodipendente Patric, fratello minore del più granitico Jimmy.
Inquadrato il contesto di violenza, cameratismo e intolleranza, Lars viene mandato in ritiro spirituale da Jimmy a leggere e meditare sul Mein Kampf, nella villa sul mare del politico dalle mani pulite che tesse le trame esterne e politiche dell’organizzazione, che usufruisce così di mano d’opera gratuita per le riparazioni alla casa.
Dalla diffidenza all’accettazione, dal rispetto alla fortissima attrazione che li avvolge, il passo è davvero molto breve e i due scivolano lentamente nel terreno minato delle pulsioni erotiche condivise. I due personaggi, isolati dal mondo esterno ed immersi nella passione,  vivranno così un amore intenso e pieno ma non privo di pesanti sensi di colpa dovuti all’ambiente di sorda omofobia in cui vivono e dal quale sono costretti a nascondersi.
Sarà davvero arduo per loro sfuggire al risentimento, alla condanna e alla punizione, in un crescendo drammatico che si  avvia velocemente verso una catartica e quasi tragica conclusione.

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