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L'uomo che verrà

Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film

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La recensione su L'uomo che verrà

di mc 5
10 stelle

Sono preoccupato ma felice. E' la terza/quarta volta nel giro di pochi giorni (dopo "Avatar", "La prima cosa bella", e ci infilerei dentro anche il bellissimo "Tra le nuvole") che mi capita di affrontare una recensione trovandomi in grande imbarazzo a non trovare parole adeguate per raccontare un film talmente bello ed appassionante da rendermi problematico qualunque approccio critico. Si esce dalla visione di "L'uomo che verrà" con la consapevolezza di aver vissuto un'esperienza che in qualche modo ti ha cambiato. Come avessi realizzato una "full immersion" in un altro pianeta. Chiaro che parlo per paradossi e con "licenza di spaziare", ma è come se, dopo "Avatar", mi fossi sottoposto ad una nuova esperienza "extrasensoriale", stavolta non più tra il popolo Na'Vi, ma bensì tra i contadini montanari dell'appennino bolognese negli anni '40. Un'Italia umilissima ed autentica, qualcosa che ci parla di noi, di come eravamo neanche poi tanti anni fa. E la fascinazione che Diritti proietta sullo spettatore nel raccontare quella comunità contadina è qualcosa di totalizzante, di assolutamente magico: un INCANTO. In quelle facce, in quei gesti, personalmente ritrovo i racconti che i miei nonni defunti mi avevano tramandato, tipo -ad esempio- il radunarsi la sera nella stalla a raccontarsi storie di ogni tipo, come pure il rito antico della macellazione del maiale (un Evento assoluto!), e in genere l'estrema fatica nel cercare nella terra le risorse per vivere. Ed è importante che qualcuno come Diritti, o anche i vari Musei della Civiltà Contadina presenti sul territorio emiliano, continuino ad alimentare questa Memoria. La vita aveva allora tempi molto diversi da quella odierna, seguendo quelli del mutare delle stagioni. E quei ritmi, quei tempi, quelle cadenze, vengono riproposti da Diritti in modo assai suggestivo e coinvolgente. Questo è però solo un aspetto del film, quello quasi documentaristico sulla civiltà montanara-contadina. Poi c'è l'aspetto "storico", che prende spunto dalla nota tragedia dello sterminio di Marzabotto, in cui furono massacrate bestialmente oltre 700 persone, in gran parte donne, vecchi e bambini. Uno dei più pazzeschi crimini dell'umanità. Che violentò una comunità di contadini, di brave persone che vivevano pacificamente di quel poco che dava loro la terra. A mio avviso due sono i "sensi" centrali di questo film, e voglio enunciarli subito per poi svilupparli in seguito. 1) la speranza che nasce (una VITA che nasce) contemporaneamente alla MORTE di tante vite 2) l'ottica, lo sguardo, di Diritti (che diviene poi quello nostro di spettatori) che si identifica totalmente con quello dei contadini protagonisti. Il punto di vista di chi vede le cose (e la Storia) dal basso, di chi emette valutazioni nè politiche nè storiche ma soltanto UMANE. M'è capitato per caso pochi giorni fa di ascoltare (ahimè solo un breve frammento, ma ora la cercherò in rete) un'intervista radiofonica in cui lo stesso Diritti affermava un concetto importante. Sui banchi di scuola ci hanno sempre descritto i grandi imperatori e condottieri come figure imponenti, eroiche e autorevoli, e sto parlando di personaggi tipo Carlo Magno o Giulio Cesare, e invece -sosteneva giustamente Diritti- essi furono dei grandi assassini, gente che per attuare i propri piani di conquista fece massacrare milioni di persone. Persone umili come i contadini di Monte Sole, uomini che la Storia l'hanno subìta e dalla Storia sono stati violentati. Lo spettatore, immedesimandosi in quelle umili persone, assiste al precipitare drammatico dei fatti, condividendo con esse il disagio, il malessere, e l'impotenza di chi vede la propria esistenza stuprata brutalmente da un qualcosa di troppo grande per poterlo affrontare. E alla fine, dopo la strage, ci si sente come svuotati, sgomenti, annichiliti, e tutto quello che ci è rimasto, l'unica cosa in assoluto a cui poterci aggrappare per non sprofondare nel buio della disperazione, è rappresentata da quei vagiti, da quel fagottino tenero che vorremmo quasi toccare e coccolare. Questo è il punto. A Marzabotto, quel giorno, non sono morte "solo" fra le 700 e le 800 persone: là è come fosse morta l'Umanità, o la Dignità Umana. Ma, nel contempo, è nata una nuova vita, che rappresenta un lume di speranza, una piccola luce che brilla tra quelle macerie, qualcosa per cui vale ancora la pena vivere. Quel fagottino che piange, è lui, "L'uomo che verrà". E adesso veniamo ad un altro punto centrale dell'opera. Cioè lo sguardo adottato da Diritti circa una valutazione storica e politica di quegli eventi. Si tratta di un aspetto fondamentale, coerente con la visione "dal basso" che contraddistingue il regista. Nell'ottica di una Storia vista con gli occhi dei contadini, non sono ammesse scelte di campo nette, tipo raffigurazioni oleografiche della Resistenza. O meglio: sì, noi sappiamo bene da che parte stava la ragione (chi fu aggredito e massacrato) e da quale il torto (chi invase e sterminò). Ma, detto questo, quello che noi dobbiamo mettere davanti a tutto, incondizionatamente, è l'orrore e la repulsione per la Guerra. Indipendentemente da ogni scelta di parte politica. Perchè poi, e questo lo sappiamo bene, in regime di guerra, tutto può succedere, comprese le possibili degenerazioni da ambo le parti, nell'ambito delle quali diventano "normali" perfino eccessi e soprusi. E dico ciò avendo ben presente una precisa sequenza del film: quella in cui i giovani ribelli partigiani sparano alla nuca ad un soldato tedesco dopo averlo costretto a scavare la propria fossa. E' un gesto da vigliacchi, come tanti ce ne furono, eppure in tempo di guerra esso assume i contorni della normalità. E invece NON deve essere considerato un gesto normale, o dovuto. Mi sembra perfino ovvio chiarire che in questi miei ragionamenti la parola REVISIONISMO non ha cittadinanza alcuna. Assolutamente. Il punto, invece, sta proprio negli occhi innocenti e nella purezza dello sguardo con cui la piccola Martina assiste a quel fatto; ella ne è giustamente sconvolta, perchè ai suoi occhi puri quel gesto appare per quello che effettivamente è: un crimine che non ammette giustificazioni. La verità è che la guerra riesce a tirar fuori dagli uomini, di qualsiasi fede o fazione, il LATO PEGGIORE, quella che Guccini quando canta "Auschwitz" definisce la "BELVA UMANA". Ecco il punto, secondo Diritti: la guerra trasforma gli uomini ("certi" uomini) in belve. Ed è questo il motivo per cui è da condannare "in toto", senza ammettere giustificazioni legate -per dire- ad episodi di rappresaglie o vendette. E qui mi viene in mente un concetto che viene a più riprese riproposto nel film. Il contadino protagonista ho notato (ma come lui altri personaggi della comunità) che più d'una volta inizia le sue frasi con la premessa "A me hanno insegnato che" oppure "MI hanno sempre insegnato che". Bene. Ricordate cosa dice l'ufficialetto nazista verso la fine del film? Dice (testualmente): "Noi siamo ciò che ci hanno insegnato ad essere, è una questione di educazione". Ecco. Io credo che sia il caso di riflettere su questi due pensieri speculari, espressi da persone così diverse. Se noi li colleghiamo e riflettiamo, forse abbiamo afferrato il senso stesso del film. Se ci hanno insegnato fin da piccoli a convivere nel rispetto e nella solidarietà saremo uomini di un certo tipo; se invece la nostra cultura include e giustifica la sopraffazione allora saremo adulti portatori di ben altri valori. Dopo la visione di questo film, mi sono accorto di un'altra cosa, un piccolo miracolo: ognuno può constatare che nell'opera è totalmente assente ogni forma di retorica, e questo lo si deve proprio alla scelta, da parte di Diritti, di optare per una chiave di lettura "morale" anzichè "politica" (sarebbe stato molto più comodo e facile raffgurare tanti "santini" dei partigiani, ma allora sì che Diritti sarebbe sprofondato nella più banalmente celebrativa delle retoriche). Quasi tutti i critici, in sede di recensione, hanno tirato in ballo il nome di un Maestro: Ermanno Olmi. Non si può non essere d'accordo, ma io vorrei aggiungere qualcosa, a costo di apparire "blasfemo" o oltraggioso. Ho trovato, nello stile di Diritti, un Olmi sfrondato da certi suoi tempi eccessivamente lenti e lievemente noiosi. Ma vi ho trovato anche un Pupi Avati sfrondato di tanta sua retorica ruffiana, buonista-cattolica, folkloristica. In pratica ho recepito come una summa del meglio di entrambi i cineasti citati. E adesso rendiamo omaggio ad un cast composto per la quasi totalità di comparse del luogo e di attori non professionisti. In questo contesto spiccano le due "star" femminili, che hanno dato entrambe il massimo: Alba Rohrwacher e Maya Sansa. Piccola parentesi: le due brave attrici hanno oltretutto dovuto studiare il dialetto bolognese: se dovessi dar loro un voto, da bolognese quale sono, attribuirei la sufficienza annotando che forse -soprattutto la Sansa- potevano forse "studiare" l'accento un pò di più...Questo senza nulla togliere al valore della loro prova. Claudio Casadio, fino ad ora attore solo di teatro, è semplicemente meraviglioso nel ruolo del capofamiglia contadino, pieno di buon senso e di valori morali tramandati dai suoi avi: straordinario anche quando assume la deriva di uomo braccato e disperato, pietrificato dal dolore, con lo sguardo nel vuoto mentre fissa un albero (o è fissato dall'albero?). E per finire...lei. La Regina assoluta di questo cast. La superba, magistrale, ma al tempo stesso istintiva e naturalissima, Greta Zuccheri Montanari. Io non so Diritti quanti provini abbia fatto, e a quante bambine, ma di una cosa sono certo: meglio di Greta non poteva trovare!. E' una creatura incantevole, la piccola Greta. Dotata di una grazia e di una naturalezza che ti abbagliano. La sua prova è di quelle da standing ovation. E vederla, sui titoli di coda, mentre intona con un filo di voce una antica ninna nanna per il suo adorato fratellino in fasce, è una di quelle immagini che ti strappano lacrime vere di tenerezza. Io non so se Diritti (che, per inciso, il film se lo è sceneggiato, prodotto, diretto e montato) si rende conto di aver dato vita ad un'opera di bellezza e preziosità incommensurabili.
Voto: 10

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