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L'uomo che verrà

Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film

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La recensione su L'uomo che verrà

di ROTOTOM
10 stelle

L’uomo che verrà è la testimonianza di un ricordo. Eventi setacciati e tramandati  oralmente, raccolti poi nel libro Le querce di Monte Sole a cui il film si ispira, dalla gente di Monte Sole  sopravvissuta dell’eccidio di Marzabotto compiuto dai nazisti nel 1944, intrecciati con la storia di personaggi di fantasia, la famiglia di Armando, Lena e la piccola Martina  di 8 anni.
Giorgio Diritti dopo il bellissimo  Il vento fa il suo giro, circolato nelle sale solo grazie al passaparola e divenuto paradigma dell’ottusa cecità del sistema distributivo italiano, dà vita ad una delle pellicole più intense mai viste negli ultimi anni.
Molto spesso il limite dei film che passano il dito nelle ferite ancora aperte della seconda guerra mondiale è  l’esacerbazione dei sentimenti e il patetismo ricattatorio certi dell’impunità traslata dal tema. Al contrario L’uomo che verrà è un film rigoroso e antiretorico, asciutto nella messa in scena e meravigliosamente recitato nel dialetto locale –sottotitolato in italiano- per garantire la totale immedesimazione nei luoghi e nei tempi teatro della vicenda. L’eccidio di Marzabotto è – purtroppo-  un soggetto che sembra scritto apposta per il cinema che permette di condensare gli effetti della Storia sulla povera gente, quella che è quotidianamente in guerra con le bizze e le durezze della terra e che proprio un’altra di guerra non la riesce a sopportare. Il regista adotta come punto di vista lo sguardo di Martina, chiusa in un volontario e ostinato mutismo dopo che il primo fratellino appena nato le morì tra le braccia e che ora attende che la mamma ancora incinta le dia un’altra occasione. 
 La bambina è una piccola Alice nel paese degli orrori, il suo sguardo si fa giudice e memoria, l’innocenza della sua presenza-assenza quasi fantasmatica si pone come pietra di paragone verso l’atrocità che diventerà Storia. Riflettendosi nei suoi occhi le azioni perdono ogni senso, l’incomprensibilità della guerra prende corpo nel palesarsi della morte che riunisce tutti, partigiani e nazisti, in un limbo di perversa irrealtà. Film di sacra bellezza e terrea umanità, Dio è sempre presente negli occhi della gente, tangibile nel legame con la terra, compreso nei riti della chiesa il cui pastore è realmente il custode che accoglie il gregge e lo guida verso la salvezza.  La descrizione del mondo contadino è impeccabile, delegata ad un fluido movimento di macchina, alla fotografia tutta naturale, ai rumori e ai riti della quotidianità, alle gerarchie matriarcali, ai gesti, e gli sciafòun à l’orba della vecchia nonna coriacea  che punisce così la voglia di leggerezza delle due figlie più grandi imbucatesi ad un ballo, in una stalla, con i maschi del paese. La storia è tenuta in miracoloso equilibrio tra asprezza e dolcezza, commedia e tragedia si fondono in una visione che richiama i capolavori della corrente neorealista con la quale L’uomo che verrà condivide alcuni stilemi. La densità dell’inquadratura è straordinaria, ogni ripresa ha un suo senso proprio che giustifica la storia, contribuendo a formare quell’estetica del  rurale che risulta più verosimile del vero così come il cinema neorealista nella ricerca della verità aveva nell’estetica della miseria la cifra stilistica entro la quale i personaggi agivano. Martina ha solo 8 anni ma è ammalata di morte (Primo Levi si definì così dopo l’esperienza del campo di concentramento, per poi suicidarsi) oppressa dal senso di colpa per la morte del suo fratellino e nel suo muto aggirarsi tra lo sfacelo non può che richiamare alla memoria Edmund il bambino di Germania anno zero di Roberto Rossellini, sconvolto per aver ucciso il proprio padre.
L’aver affidato a una bambina la parte della protagonista è sintomatico del legame con il neorealismo, in esso i bambini hanno il compito di essere testimoni degli eventi e di trasportarli verso il futuro, Roma città aperta nei bambini che assistono all’esecuzione del prete e si incamminano verso la città ha in sè il messaggio di speranza che Diritti affida a Martina la cui forza, rispetto a l’Edmund rosselliniano, è quella di avere un compito da portare a termine, salvare e accompagnare L’uomo che verrà, suo fratello verso un futuro migliore.
Rossellini è citato anche nella morte della madre Lena, il cui omicidio ricorda per brutalità quello di Pina (Anna Magnani) di Roma città aperta mentre ai bambini che scimmiottano le fucilazioni  perpetrare da parte dei nazisti  sono concessi solo giochi inerenti la guerra e la morte, così come Edmund tra le macerie della sua città mima il suicidio e una battaglia  prima di togliersi la vita.
La rarefazione dei dialoghi nella seconda parte del film acuisce il senso di sgomento per l’imminente martirio, delegando in toto alle immagini e ai suoni, quindi ad uno straordinario uso del linguaggio cinematografico, il compito di trasmettere emozioni. Diritti raccoglie messi di dolore in lancinanti campi lunghi e le affastella nei primi piani dello sguardo delle donne e dei bambini, alla narrazione si sostituisce il documento del massacro proposto senza alcuna concessione al pathos. La guerra è un insieme di quadri astratti (i nostri, i loro, gli spari, la polvere, la morte, le razzie)  ai quali i contadini non provano neppure a dare una spiegazione, così lo stupore di una morte assurda si palesa negli occhi dei condannati ancora prima della paura.
 
Giorgio Diritti è autore di cristallino talento, già iscritto tra i grandi insieme ai Garrone e ai Sorrentino e perché no anche ai Virzì, gli unici a contrastare con un cinema possente e molto personale la totalizzante invasione dell’intrattenimento USA. Fatevi del bene, non perdete questo film.

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