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Cella 211

Regia di Daniel Monzón vedi scheda film

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La recensione su Cella 211

di mc 5
10 stelle

C'è un errore che non bisogna assolutamente fare, nel giudicare questo clamoroso film spagnolo. Evitare qualunque forma di comparazione con l'altro capolavoro del filone prison-movie proveniente dalla Francia, il premiatissimo "Un prophète" di Jacques Audiard. Sono due pellicole troppo diverse. Quella francese è un ambizioso film d'autore, mentre "Cella 211" è cinema di genere (del migliore!). Eppure entrambi hanno come comune location un carcere. Entrambi hanno fatto incetta di premi nei rispettivi Paesi (i Cèsars in Francia, i Goya in Spagna). Io devo ammettere che sono stato colpito a tradimento da questo film, nel senso che non m'aspettavo un dramma di tale intensità e sono uscito sconvolto da una visione che si è rivelata un'esperienza indimenticabile. Tanto che, come mi accade quando mi imbatto in un capolavoro che mi sorprende, ho scelto di vederlo una seconda volta. E la seconda occasione mi ha consentito di dedicare tutta la mia attenzione al talento recitativo di Luis Tosar, l'attore che interpreta Malamadre, il leader dei carcerati in rivolta, il capo carismatico che li guida in questa piccola ma violenta rivoluzione. Si tratta di un'interpretazione -lo dico con forza- devastante. Una prova d'attore assolutamente superba che -in uno come me che predilige un cinema d'attori- ha generato un'autentica esaltazione. Osservate, prego, gli occhi di questo attore sullo schermo. Essi rispecchiano davvero (al 100%) la personalità di un essere disturbato, di un uomo pervaso da una rabbia ed eccitazione talmente allargate da farlo sentire onnipotente. Malamadre è posseduto da un'energia che lo fa sentire un Dio, guarda chiunque con disprezzo, nulla e nessuno gli fa paura, il suo ghigno esprime il delirio di chi, non avendo niente da perdere, può dire, fare, pretendere qualunque cosa. E tutto questo pur essendo egli consapevole che la sua vita avrà la sua naturale scadenza entro le mura di un carcere, non importa quale. Morirà ingabbiato, ma nessuno si potrà mai permettere di insegnargli a stare al mondo, perchè lui lo farà a pezzi. E' un ruolo il suo, ve ne accorgerete se vedrete il film, tra i più inquietanti e "pesanti" mai visti al cinema, nemmeno in ambito di "filone carcerario". Quel volto, quel "ghigno", e soprattutto quello sguardo, molto difficilmente verranno scalzati dal vostro patrimonio di memoria cinefila. Il volto di Malamadre (e la sua voce arrochita, fortemente caratterizzata da uno straordinario Francesco Pannofino!) personalmente, mi hanno scosso, radicalmente condizionato, in qualche modo turbato. E' uno sguardo il suo, che chiunque di noi lo dovesse incrociare nella vita di ogni giorno, difficilmente riuscirebbe a sostenerlo senza chinare gli occhi, troppo alto sarebbe il livello della sfida. E quando si riesce a realizzare un effetto emotivo inquietante a questi livelli, bisogna supporre che il lavoro svolto dall'attore sul proprio corpo e sulla propria capacità di comunicare, dev'essere stato qualcosa di veramente molto impegnativo. Al punto che poi fa impressione vedere lo stesso attore su You Tube, in una conferenza stampa promozionale, nelle vesti di persona normale, che risponde alle domande pacato e tranquillo. Ed è proprio in casi come questo che mi capita, per l'ennesima volta, di riflettere sulle tecniche del mestiere d'attore, sull'inquietante attitudine a diventare "altro" da sè, come ingaggiando una pericolosa sfida coi limiti della propria psiche, in taluni casi facendo di questa sfida un'ossessione. Quell'ossessione che condusse Bela Lugosi a varcare i confini della pazzìa. E adesso vediamo di sintetizzare la storia, precisando che ci troviamo di fronte ad una sceneggiatura sopraffina, piena di colpi di scena e di snodi determinanti, con una inclinazione speciale a dare spazio all'indagine sull'animo umano e sulle sue reazioni emotive dinnanzi a situazioni problematiche. Si tratta dunque anche di una ricerca sull'Uomo, sul suo coraggio, sulla sua capacità di mentire, sulla sua sopportazione del dolore, sugli abissi della sua rabbia, sulla sua indole meschina...sono tanti i personaggi e tante le sfumature e le tendenze umane che emergono nel corso della pellicola. Il film inizia in modo abbastanza tranquillo. Un secondino al suo primo giorno di lavoro viene accompagnato da due agenti a visitare il carcere dove lui sta per prendere servizio. Questo "momento" dura in tutto al massimo dai 3 ai 4 minuti, fatto sta che praticamente dopo appena 5 minuti dall'ultimo titolo di testa, sia i protagonisti che il pubblico in sala vengono fatti piombare nell'Incubo, precipitare in una concitazione improvvisa da batticuore. Accade cioè che il secondino, colpito casualmente alla testa da un calcinaccio caduto dal soffitto, sosta a riposare in una cella vuota, ma proprio in quell'esatto istante irrompe devastante la rivolta dei detenuti. I due agenti, nel parapiglia tremendo che si scatena, se la danno a gambe abbandonando lo sventurato secondino al suo destino, mentre tutt'intorno i rivoltosi mettono a ferro e fuoco ogni cosa. E qui va detta una cosa. Io e voi si suppone, da amanti del buon cinema, abbiamo una discreta famigliarità coi cosiddetti "prison-movies", ed è altrettanto scontato che chi sconta una pena in carcere venga descritto (cinematograficamente parlando) secondo i canoni del classico "brutto ceffo". Ma qui si è andati ben oltre i limiti finora noti nel mettere in scena l'essenza più violenta, distruttiva e malvagia dell'universo degli avanzi di galera. Il regista ha saputo scegliere i volti più idonei ad esprimere odio, rabbia e cinica cattiveria. Tragli altri, c'è un personaggio che mette davvero disagio: un tizio con lo sguardo nel vuoto che bofonchia frasi sconnesse col tono di una litanìa. Poi ci sono i due "aiutanti" di Malamadre, due tipini che te li raccomando; uno è Tachuela, un piccoletto coi baffi che supplisce alla mancata corpulenza con un'espressione perennemente torva, l'altro è un colombiano che tutti chiamano Apache, il quale incute paura sia col volto di ghiaccio che con la corporatura di un armadio. Ma il protagonista è lui, Malamadre, uno dei ruoli da cattivo-senza-redenzione più incisivi fra tutti quelli finora rappresentati nella storia del cinema. Ma torniamo al nostro secondino, che si chiama Juan, che viene subito trovato dai detenuti rivoltosi e condotto (anzi: spintonato) al cospetto del "capo", il terribile Malamadre. E qui preferisco interrompere il mio racconto, quando il film è giusto all'inizio, per non danneggiare una visione avvincente. Mi limito solo ad osservare che tra Juan (che riesce a fingersi un carcerato) e Malamadre si instaura un rapporto molto sofisticato ed estremamente intrigante ed ambiguo che poi è forse il punto di forza della pellicola. Quanto ai detenuti, poi, ci sarebbe da aprire un inciso importante sulla presenza di una manciata di carcerati specialissimi, cioè alcuni attentatori terroristi dell'Eta, i quali giocheranno nella vicenda un peso particolare di cui preferisco non svelare i dettagli. Nel film vengono in sostanza mostrati, in parallelo, due mondi: quello dei detenuti infuriati e quello della direzione del carcere, a cui si annettono i poliziotti delle forze speciali pronti ad intervenire e anche un paio di incaricati del Governo che fungeranno da intermediari nelle trattative. Adesso qui sarebbe complicato scendere nei dettagli, ma fondamentale nel film è l'analisi dei comportamenti e delle scelte delicatissime cui vengono chiamati i responsabili del carcere e i delegati del governo spagnolo. La sceneggiatura ha dunque il merito di mettere a fuoco con occhio assolutamente impietoso le scelte di chi conduce l'operazione "diplomatica" dalle poltrone della direzione carceraria. Ed è proprio questo tipo di analisi che va ricondotta ad un'osservazione più ampia dell'animo umano e delle sue piccole grandi potenziali meschinità che suscita nello spettatore un interesse che diviene presto emozione e passione, incatenandolo alla poltrona ed impedendogli ogni distrazione. E sullo sfondo sempre i due scenari: un carcere sempre più messo a soqquadro dalla furia distruttiva dei detenuti e un ufficio nel quale addetti governativi alle trattative e responsabili del carcere si muovono con molte difficoltà oggettive, ma anche con qualche ombra di inettitudine morale e di avvilente meschinità: ciò che farà poi fatalmente declinare tutto quanto in irreversibile tragedia. E rendiamo omaggio ad un immenso cast, benchè per lo più composto di volti spagnoli a noi italiani sconosciuti. Alberto Ammann è Juan, il giovane secondino che in pochi secondi vede trasformare la sua condizione di marito felice (e prossimo alla paternità) in quella di uomo più sfortunato del mondo che sbatte frontalmente il viso contro la Tragedia. Poi, in un ruolo secondario ma efficace, troviamo il corpulento fratello di Javier Bardem, il buon Carlos, il cui fisico massiccio lo inchioda al ruolo del detenuto infido e violento, Apache. Da segnalare infine il talento di Antonio Resines, che impersona l'odiosissimo Utrilla, ipocrita e violento responsabile della sicurezza del carcere. Ma il trionfatore assoluto è Luis Tosar che, nel ruolo del terribile Malamadre, consegna alla storia del Cinema una delle performance più magistrali mai viste, una prova da autentico fuoriclasse, un monumento al trasformismo istrionico che ogni giovane attore dovrebbe studiarsi come modello di recitazione. Roba (quasi) ai livelli del De Niro più "diabolico". Film da non perdere. Un pugno nello stomaco. Anzi, nella pancia.
Voto: 10   

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