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Blindato

Regia di Nimród Antal vedi scheda film

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La recensione su Blindato

di Decks
7 stelle

C'è un genere che solitamente non perde mai un'uscita in qualsiasi multisala e, a volte, anche nei cinema indipendenti. Esso è capace di attrarre in massa il pubblico e i suoi portafogli: ovviamente sto parlando del genere action.

Il livello di qualità è spesso misero, ma vi sono pellicole come questa che, malgrado la banalità, si dimostrano interessanti e ad alto contenuto sociale. Un peccato che non sia neppure uscito in sala, al contrario di tanti altri guazzabugli.

 

Nimròd Antal è indubbiamente un regista che conosce i meccanismi che strutturano la tensione: si può notare soprattutto in "Vacancy", dove mette particolarmente in risalto questa sua capacità. Due anni dopo, realizza il seguente film, nel quale torna tutta la sua abilità nel rendere avvincente qualsiasi sequenza, unita ad un controllo della cinepresa che fortunatamente non segue i canoni dell'action statunitense.

Il punto di forza di Antal è lo svolgersi dell'azione, non tanto la rapina, o i suoi personaggi, quanto il modo con cui viene messa in scena: ogni martellata che viene assestata ai cardini del blindato è un colpo adrenalinico per lo spettatore; i colpi di fucile verso un inatteso testimone sono il segnale di una caduta nell'immoralità. Sono tanti i momenti come questi dove si tiene il fiato sospeso. Antal, saggiamente, si ispira a maestri del calibro di Tarantino per il contesto e Raimi (che non a caso è il produttore) per il montaggio serratissimo.

Ciò che differenzia "Armored" dai tanti prodotti hollywoodiani, è soprattutto, che il regista ungherese non si preoccupa del come si svolge l'azione, ma del perchè avviene. Per farlo, delinea tutte le problematiche che causano un simile gesto da parte di semplici guardie giurate: non malvagi criminali, ma persone comuni che bramano solo una vita agiata lontano da crisi economiche e bollette.

Tyler è l'incarnazione dell'uomo comune sommerso dai debiti e con a carico un fratello irresponsabile: anzichè essere aiutato, si ritrova solo uno stato che vuole portargli via la famiglia e la casa. La scena in cui un assistente sociale si scandalizza di fronte a descrizioni di dolente, ma inevitabile, quotidianietà, simboleggia come possa diventare seducente il male agli occhi di un onesto uomo qualunque, impotente di fronte alle ingiustizie statali.

 

 

Una buona mano e un pizzico di contenuto. Basta questo per far sì che il film di Antal funzioni, con l'aggiunta di una colonna sonora firmata da John Murphy (professionista dell'action movie) si riesce a mantenere un ritmo teso e ben congegnato, tanto che, arrivati alla fine, sembreranno passati appena 10 minuti.

Se il frenetico montaggio e le rapide riprese funzionano per le parti più movimentate, ci si sente un po' troppo sballottati da questo metodo di ripresa durante le parti iniziali: trascorrono indefinite e sfuggenti in un contesto giornaliero, troppo sopra le righe; peggio ancora nel finale, che assume dei toni così sbrigativi da non poter evitare di trattenere una smorfia, tanto gli eventi si susseguono con rapidità, senza dare tempo allo spettatore di digerire ogni evento e lasciando un po' di amaro in bocca.

Antal compie anche il grave errore di permeare il suo protagonista di un abbondante buonismo: oltre a renderlo eccessivamente stereotipato e persino insopportabile, questa scelta demolisce tutto l'aspetto sociale conferitogli in precedenza, che lo rendeva un ottimo personaggio sospeso tra legalità e illegalità. Dopo un quarto di pellicola Tyler diventa un paladino della giustizia contraddittorio e dalle scelte illogiche.

 

Non c'è interesse nello sviluppare le psicologie di tutti i personaggi, i quali rimagono grezzi ed elementari come erano fin dall'inizio. Comprensibile, ma non lo è la disastrosa sceneggiatura che compromette l'intero lungometraggio: dialoghi scontati e imbarazzanti; sentiti e risentiti, ed hanno anche qualche forzatura. Addirittura rendono alcune scene insulse, come il premio che riceve Tyler nel finale dal suo capo: un enorme clichè colmo di quella retorica che piace tanto agli americani.

Un vero peccato, perchè essa nuoce anche al buon cast: Matt Dillon e Laurence Fishburne sono due personaggi interessanti e le loro interpretazioni sono buone, ma a causa di frasi scontate diventano quasi parodie di sè stessi; ancora peggio per Jean Reno, viene letteralmente messo da parte dandogli pochissime battute e una personalità inesistente.

 

Accattivante e coinvolgente, Antal dimostra che basta una dose di azione ben girata e temi pressanti oggigiorno per rendere un film dalle mediocri sceneggiature e dalla trama insignificante un buon prodotto.

Per nulla pretenzioso, non rimarrà nella storia del cinema, ma è un action autentico che è sicuramente sopra la media degli attuali film tutti esplosioni.

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