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Lo spazio bianco

Regia di Francesca Comencini vedi scheda film

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La recensione su Lo spazio bianco

di nickoftime
6 stelle

Dopo aver lavato i panni sporchi di un Italia corrotta ed in crisi di valori, Francesca Comencini torna a raccontare la vita quotidiana attraverso l’esperienza di Maria, single quarantenne costretta ad affrontare le conseguenze di un parto prematuro e le incognite legate alle precarie condizioni del nascituro. L’evento, accolto sulle prime con rassegnata accettazione  si trasforma per fasi successive in una sorta di confronto tra le aspirazioni di una personalità ai limiti della nevrosi  e le responsabilità di un maternità complicata dall’incerto futuro del bambino, tenuto in vita dalla speranza della madre e, paradossalmente, dalla mancanza di risposte dell’apparato medicale. L’attesa per lo scioglimento della prognosi diventa il tempo di una seconda gestazione, la palingenesi di una donna che ritrova se stessa attraverso il confronto con quella parte di sé che aveva sempre negato - esemplare in questo senso la scena in cui dopo aver fatto l’amore Maria, nuda e con la sigaretta in mano, osserva con sguardo distante il bambino del suo amante- e la possibilità di una condivisione senza merce di scambio, attuata sulla base di una condizione in cui il bisogno di solidarietà è più forte delle differenze sociali. La Comencini privilegia la dimensione personale della vicenda immergendo lo spettatore nell’universo emozionale della protagonista: la storia procede in un unicum in cui presente e passato, omissioni e disvelamenti si confondono sullo sfondo di un paesaggio che non riesce mai a diventare completamente reale ma è sempre il risultato di uno stato d’animo o la reazione ad una situazione contingente. Una rappresentazione che diventa onirica nelle scene più belle, quelle dedicate al primo contatto tra la madre ed il figlio, avvenuto in un ospedale che la fotografia di Bigazzi trasforma in un non luogo dai contorni sfumati di bianco e dove le figure diventano il riflesso della loro essenza. Un lavoro  di sottrazione a cui poco si addicono le improvvise (e molto forzate) aperture verso la realtà del paese, di volta in volta rappresentate dalla figura del magistrato in lotta contro la mafia o dallo sguardo sulla condizione femminile, la cui solitudine viene enfatizzata dalla lunga carrellata (ripetuta all’inizio ed alla fine del film) sugli interni delle abitazioni che Maria vede dall’autobus che la porta a lavoro. Nuoce soprattutto la scelta di un attrice (Margherita Buy) che ci mette la faccia (con rughe programmaticamente enfatizzate) ed anche il corpo (accenno di nudo integrale salvato dalla scarsa illuminazione dell’ambiente) ma non riesce mai a lasciarsi andare: basterebbe considerare la scena iniziale, quella in cui la protagonista è intenta a ballare ed insieme, a liberarsi delle proprie inibizioni. Ecco proprio lì, in quei movimenti che non diventano mai fluidi c’è il succo di una scommessa non riuscita e del film che poteva essere ed invece non è.

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