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District 9

Regia di Neill Blomkamp vedi scheda film

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La recensione su District 9

di ROTOTOM
8 stelle

Sono vent’anni che quella cosa è lassù, l’idea romantica del contatto alieno si è diluita nella quotidianità di quel contatto, della sua famigliarità un po’ ingombrante. Dell’ospite che se dopo tre giorni puzza, dopo tutto quel tempo ammorba. Lassù c’è una astronave aliena grossa come una città in inspiegabile sospensione –come solo i film di fantascienza riescono a rendere plausibile – su Johannesburg, megalopoli sudafricana. A terra, in un distretto, il 9 del titolo, che avrebbe dovuto accogliere gli ospiti, la recinzione segrega 1 milione di “gamberoni” alieni che se fossimo negli anni ottanta potremmo tranquillamente chiamare “nigger” usando lo stesso tono consapevolmente denigratorio. Nel distretto divenuto uno slum a tutti gli effetti, regna povertà sporcizia e malavita, la popolazione è sull’orlo di una sommossa contro gli alieni che nulla fanno, insensibili come sono alle regole terrestri, per rendersi accettati.
 
L’idea di District 9 è folgorante, il problema dell’immigrazione e della segregazione razziale virato in un contesto fantapolitico dallo stile –finto- sporco proprio dei reportage sul campo è qualcosa che non ricordo di aver mai visto. Il regista Neill Blomkamp è sudafricano e quindi sa di cosa parla, chi lo produce è Peter Jackson che è uno che sa ciò che fa. L’aspetto è quello di un film di serie B, sporco, grezzo, filmato con tanta camera a mano, personaggi ficcati nei loro ruoli con le facce da eterni comprimari e loro, gli alieni in credibile computer graphics,  crostaceiformi dagli occhioni languidi. Credibilità, soprattutto, per ostentare una verità più falsa bisogna che le immagini siano il più possibile attinenti ad una realtà che già appartenga all’immaginario collettivo degli spettatori. La vita delle baraccopoli è ampiamente documentata e quindi il trasfert visivo tra i reietti brasiliani, messicani o sudafricani e il “gamberone” alieno scaraventato in una baraccopoli iperrealista  sovrappopolata e sudicia, viene accettato senza battere ciglio. La prima mezz’ora in questo senso sfiora il capolavoro, equilibrando magnificamente il mockumentary motore della storia, la denuncia sociale, la fantascienza pura e tanta ironia.
 
La burocrazia si fa le beffe di un’astronave aliena e dei suoi ospiti attesi da millenni. Forse hanno deluso un po’ le aspettative di tanti sognatori che si ritrovano in mano un cocktail di gamberi indisciplinati e abbruttiti da una vita da segregati invece di un tenero ET come il cinema ci ha insegnato ad amare. Scontentando pure i militari che non vedevano l’ora di diventare come eroi di Indipendence Day.
Chi invece li credeva mostri  pronti a invadere il mondo trasformando tutti a loro immagine e somiglianza come ben spiegato da Don Siegel in The Body Snatcher, si ritrova tra i piedi un branco di alieni drogati di cibo per gatti, dediti al contrabbando di armi e pezzi di auto rubate.
C’è tantissimo cinema smontato e smentito nel sottotesto, lo sfratto dall’ ex campo provvisorio di accoglienza divenuto definitivo prima e abbandonato al suo destino di slum poi, avviene non con le bombe ma con un delirante proposito burocratico formale del modulo da fare firmare.
La cosa più triste è proprio vedere fieri alieni protagonisti di tanti film e di tanto immaginario collettivo essere umiliati dalla necessità di una firma su un modulo. 
 
Questa prima parte documentaristica è supportata da interviste, visioni da monitor o schermi televisivi, sguardo che si moltiplica e si frantuma in visioni multiple buone per i notiziari in onda 24 ore su 24. Poi tutto torna alla normalità della fantascienza classica, seppur girata con gusto e senza mollare mai il fine ultimo dell’operazione: il divertimento. Così l’alieno si dimostra più buono degli umani, e lavora clandestinamente per tornare a casa come E.T. Si spianano le armi e lo slum diventa un campo di battaglia così che siano contenti anche i militari. Il funzionario addetto alla materiale comunicazione dello sfratto degli alieni viene contagiato dal DNA delle creature e comincia a trasformarsi anch’egli in un simulacro di insetto di cronemberghiana memoria.
 
Da questo punto in poi si ha un faticoso cambio di stile: se la ripresa documentaristica mostrava eventi passati, la parte centrale mostra cosa è successo dalla rivolta e dal contagio del funzionario in un tempo “presente” sconosciuto alla telecamera dell’intervista e delle riprese televisive, filmato in maniera classica come un normale film di fantascienza. Questa diversità di stili che dividono il passato in tempo oggettivo (documentario) e soggettivo (cos’è successo al funzionario infettato dal dna alieno) non è chiarissimo e provoca una spiazzante sensazione di incoerenza che solo proseguendo la visione viene metabolizzata. La tensione un po’ si annacqua quando il posto del secco humor nero (cartelli razzisti anti alieno -  l’”aborto” di una nidiata di uova purificate col fuoco – la gente di colore che si ritrova inaspettatamente solo un gradino più in alto nella scala della discriminazione e invoca il ritorno a casa dei “gamberoni”) e della caratterizzazione dell’alieno come “ socialmente diverso” la storia vira verso il sentimentale ostentando la natura “civile” dell’ospite messo in relazione agli umani e ancor di più nella divagazione di stampo spielberghiana nel rapporto padre-figlio from beyond.  
 
Quello che rimane intatto e forma lo zoccolo duro sul quale poggia la sospensione dell’incredulità richiesta a chi assiste, è la plausibilità dell’elemento tecnologico che è parte fondamentale della fantascienza per definirsi tale. Le armi,  i combattimenti, le navicelle spaziali sono fisicamente realistiche ( il combattimento con l’esoscheletro ad esempio) e il tutto è trattato  come materiale teconologico comunemente accettato, l’appoggiarsi della grande astronave sull’atmosfera sudafricana ha ufficialmente fatto deglutire lo stupore del fantastico metabolizzandolo come normale –veloce- evoluzione tecnologica.  
E’ un futuro arrivato a destinazione quello di District 9, la tecnologia aliena sta per fondersi con quella umana come il DNA di un “gamberone” infettando un umano sta creando un “diverso” ancora più diverso, unico, ma destinato come legge del contrappasso a sentire l’umiliazione della segregazione razziale sulla sua pelle, o corazza, o carapace o quello che è. Mentre la sua natura umana gli impone di fabbricare rose di metallo da destinare in segreto alla moglie.
Un po’ di retorica, personaggi duri e puri come nel miglior film di genere e tanta azione.
Un film curato nei minimi dettagli per dare esattamente l’impressione opposta e veicolare un messaggio sociale-umanitario che tutto sommato rimane nel sottotesto, per fortuna. Dopotutto la fantascienza ha fatto delle tensioni sociali l’humus nel quale impiantare germi visionari. Solo che molto spesso poi la realtà ha superato l’immaginazione. Speriamo che almeno in questo caso non sia così…..
 
Nota a margine: District 9 ha un solo immenso difetto  non imputabile ai realizzatori della pellicola ma al degradante uso del doppiaggio italiano che ancora ci si ostina a propinare al pubblico. L’italiano con la fantascienza non c’entra nulla, la lingua non lega con le immagini, non c’è niente da fare. Poi, l’apoteosi: i nigeriani che nel film hanno la parte dell’organizzazione del mercato nero alieno e che di fatto sfruttano “i gamberoni” per ottenere armi, sono doppiati alla stregua della Hattie Mc Daniel “Miss Rossella” di Via col Vento. Un doppiaggio del negro dei film anni 40 che francamente non si può più sentire. Che qualcuno faccia qualcosa, magari insegnare l’inglese a scuola o più semplicemente imparare a leggere i sottotitoli mentre si guarda un’immagine. Ci si mette poco, garantisco.

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