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Enter the Void

Regia di Gaspar Noé vedi scheda film

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La recensione su Enter the Void

di EightAndHalf
7 stelle

Iperrealismo spirituale. 
Estremizzazione finale, ultima, conclusiva del punto di vista, POV che non filma il reale, viaggio negli occhi e nell'immagine. Noé si prende sul serio eccome: il suo cinema è una psichedelia che droga e penetra nella mente, tramortisce i sensi e non si trattiene alcun tipo di colpo, annienta rimettendo alla luce, portando all'oscurità del mondo. Il corso della vita e della morte ha perso la sostanziale differenza, e anche se dopo la morte si continua, il vuoto ti circonda lo stesso. Penetriamo nel vuoto dell'esistenza, perché è tutto come lo vediamo ed è tutto nel modo in cui noi vediamo le cose, i colori intermittenti delle luci artificiali contro il procedere fisiologico di un'umanità che non è perduta né ritrovata perché il mondo non è più un labirinto. E si ripetono costanti e instancabili gli ammiccamenti di luce e buio, o di due colori diversi, tra momenti diversi, tra attimi separati del quotidiano, o fra anni che si allontanano fra di loro, nei ricordi. Dopotutto a morire, in Enter the Void, è la coscienza, la memoria, che subito dopo la morte riporta tutto alla luce osservando la nuca del proprio corpo-padrone quasi come in Yi Yi di Edward Yang, anche se lì la nuca è l'inconoscibile del bambino, mentre qui il proprio volto è l'eterno sconsociuto. Lo spirito che aleggia per la città di Tokyo, tanto accecato e assuefatto dalla luce da penetrarla in ogni singola circostanza, svolazzante trascendenza invisibile, ha perso tutti i sensi corporali (compreso il pensiero) se non l'immagine che in sé stessa traduce la coscienza. Le immagini parlano da sole, spiegano i passaggi impronunciabili di come si è venuti al mondo e come ci si è tornati, recando tutto al succo primordiale dell'esistenza. Entrare nel mondo è anche vagarci nell'eternità, perché il cerchio non si chiude mai e noi torniamo a ripercorrere gli stessi passi agghiaccianti. Né Paradiso, né Inferno, né la consolazione del Nulla, la sofferenza imperante che invasa il creato, un'esistenza che è un trip, tossicodipendenza dalla sofferenza e dalla vita, approssimarsi verso lo stato incorporeo/extracorporale della Morte, che però è vita ai massimi livelli. Riconsiderazione di sé stessi nel proprio passato e in ciò che avviene in un prossimo futuro, ricerca della vita nei fuochi scoppiettanti di neon refniani, quasi nel rosso-viola cangiante di Only God forgives, e un simile senso di annientamento. La spinta alla vita e al masochismo sprigiona l'energia giallastra che proviene da una penetrazione e, perché no?, è sintomo anch'essa di una Morte vitale, o di una vita Mortale, e il vuoto sta nell'assenza dell'Altro e nella costante presenza dello Stesso. Enter the Void è il viaggio di una coscienza che vive, poi muore e poi torna alla vita, ed essa crollerà nel buio perché non si ricorderà più niente. La trascendenza è nel vuoto dell'aria, ma è come costretta dall'atmosfera. Viaggia e ti osserva dall'alto, cerca un riparo dalla verità del passato nella contingenza dell'inafferrabile presente (anche se quel passato si è costretti a riviverlo, per riappropriarsi di tutta la sofferenza), e spara dritto al petto causando un buco anch'esso da esplorare. L'immagine è freddo calcolo, nella mano di Noé, non c'è calore vitale perché la vita non è calorosa, e su questo centra in pieno la questione; non c'è calore cinematografico perché la sua immagine non perde mai il controllo, ma lo fa perdere allo spettatore, e non si lascia trasportare dal flusso di coscienza, rappresentando il vero trip, l'assenza di una meta, soltanto all'inizio, tanto che solo mentre Oscar vive sembra che si sia veramente penetrati in un altro tempo, quello soggettivo del protagonista. Quando Oscar muore restiamo nell'immagine della sua coscienza vagante, ma diventiamo Cinema, sguardo del regista, perché la stessa trascendenza è negata, ed è tutto che va verso l'unica direzione. In Enter the Void l'aspetto più deludente è che sappiamo sempre cosa abbiamo davanti, specie dopo la morte di Oscar, e ogni immagine è immediatamente spiegabile. La vita riserva ancora più sorprese, nel suo propendere verso il mistero della morte che poi non esiste, perché siamo tutti qui costretti dai muri di una forma vuota, capaci di oltrepassare le pareti ma incapaci di vedere nella coscienza dell'altro. La frustrazione filmica di un Noé che non riesce a lasciarsi andare al flusso di coscienza è la frustrazione esistenziale di una coscienza aleatoria che comprende fin dall'inizio (e il resto non è che una conferma) di non poter essere Altro da sé, e che quindi resterà sola per sempre. Perché i limiti dell'immagine ci sono sempre, e non siamo in grado di diventare trascendenza. Che sia questa la Vita per Noé, che abbia raggiunto con questo film il suo apice, lo sconquassamento definitivo dello spazio e del tempo per, infine, comprendere sempre e comunque la destinazione? C'è un piano troppo accurato dietro la regia per stupire davvero nel profondo, per rivalutare l'esistenza. Il film funziona egregiamente a livello sensoriale, e già questo comporta un apprezzamento indubbio e incontrovertibile, ma a livello intellettuale i buchi sono troppi: che sia quello il the Void? Noé l'aveva identificato dentro il suo film, non nella mancanza di aria della sua operazione: è giusto che manchi aria nel mondo rappresentato, ma non nel modo di rappresentare, che è palesemente una ruota panoramica che rivendica libertà stilistica. Che ci sia forse troppa distanza fra la libertà visiva e la costrizione concettuale? Il film è asfissiante, non perché angoscioso (e la durata consente anche, nella penultima mezz'ora, di fare davvero l'abitudine a tutto) ma perché freddo, e per questo incapace di cogliere davvero l'irrazionalità. Vanitoso, furbo, ammirabile, il progetto Enter the Void arriva a livello estetico, non si dimentica, ma dell'essere umano e su tutto quello che c'è dentro non dice nulla. E l'esistenza di ogni giorno (visto che alla fine parliamo di una quotidianità, seppur frantumata) dimostra che il void sta nel senso, ma non nella coscienza. Il soggetto filmico umano non c'è, forse perché è tutto un loop apocalittico delle coscienze (che però 'respirano', e qui - terribilmente - ci sono, e hanno comunque una loro ristrettissima ma umana volontà), o forse perché Noé non è davvero entrato in nulla, e tutto il suo sguardo rischia di galleggiare nella pura, esta/este-tica arroganza.

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