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Il profeta

Regia di Jacques Audiard vedi scheda film

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giancarlo visitilli

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La recensione su Il profeta

di giancarlo visitilli
6 stelle

Il Vangelo, ma anche le Sure coraniche, passando per la New Age. Di sincretismo è frutto, il film, lunghissimo, di Jacques Audiard, Grand Prix della Giuria a Cannes 2009 e candidato all'Oscar per il Miglior film straniero.

La storia è quella del diciannovenne Malik El Djebena, condannato a sei anni di prigione. Lui é giovane, analfabeta, spaurito, e dentro di sè ha un fuoco, contenuto dalla sua stessa intelligenza e astuzia. Dopo aver pagato dazio alla gang corsa regnante, uccidendo un detenuto scomodo, progressivamente entra nelle grazie del “padre di famiglia”, César Luciani. Ma Malik non vorrà accontentarsi di così poco.

Il profeta, o meglio Un prophete, come sempre titolo molto più significativo, rispetto a quello italiano, sempre poco funzionali e brutti, è il film di Jacques Audiard che, alla maniera delle ultime uscite a cinema (Shutter Island di Scorsese), combina e rimpasta i generi più diversi: dal prison-movie, gangster-movie, al noir, fino al romanzo di formazione. Naturalmente, tutto ciò non può fare a meno di rileggere gran parte del cinema d’autore, da Scorsese ad Aldrich, Lynch e Cronenberg, fino al Brecht di “L’Opera da tre soldi”, citata sui titoli di coda del film, nella versione bluesy di Dale Gilmore. C’è troppa roba nel film di Audiard. La riflessione va bene, se condotta su un bel paio di temi, non di più, comprese le digressioni che, in una pellicola della durata di due ore e mezza, ce n’è veramente un bel po’, a prescindere dalle pochissime, se non nulle accelerazioni. Quel che rimane, comunque, è lo scavo psicologico, che si serve di una violenza inaudita, anche dal punto di vista formale, filmando la “banalità del male” e i suoi profeti armati. Audiard inquadra ed oscura i bordi. Mutila la vista e ferisce con colpi di lamette che sembrano accette. Ma soprattutto, si serve di un personaggio, Malik, ch’è come un vaso d’argilla, fragile, instabile e vuoto, colmandolo di presenze, parole e atti, traboccanti, poi, ma di violenza.  Il regista francese, aveva tentato già con Sulle mie labbra (2001) prima, e con Tutti i battiti del mio cuore (2005) poi, a registrare le sottigliezze dell’oppressione del singolo, che per lui sono sempre fisiche, prima che mentali, perché abitano uno spazio, una realtà, ch’é corruzione, ingiustizia e che neanche lo Stato riesce a governare. L’incipit di questo film ci aveva fatto ben sperare. In realtà, fra qualche semplificazione razziale, in cui tutti i mussulmani sono contro i corsi, alla maniera di come, erroneamente, si pensa che i mussulmani siano tutti terroristi; un uso eccessivo della simbologia cristiana e di altre religioni, che fa pensare al sincretismo, oggi tanto in voga e che tanto piace agli spiritualisti, ci fa imbattere con un Audiard che si è fatto prendere troppo la mano. Tutto ciò, senza nulla togliere alla notevole prova di regia, l’interessante montaggio, ma soprattutto la gran bella recitazione: il Malik, interpretato dallo straordinario e sorprendente Tahar Rahim, qui al suo esordio come attore protagonista, vale il costo del biglietto. Ma non quel capolavoro, di cui tutti dicono, ma soprattutto scrivono.

Giancarlo Visitilli

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