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Il profeta

Regia di Jacques Audiard vedi scheda film

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La recensione su Il profeta

di mc 5
10 stelle

Lo scorso week-end era emblematico, quanto ad uscite cinematografiche. Un grande attesissimo film, che è quello che sto per recensire, benchè distribuito da una "casa" indipendente, uno di quei film intensi e drammatici che ti raggelano. E, contemporaneamente, due tipici prodotti "major", di quelli che occupano quasi con aggressiva invadenza la totalità delle multisale. Ed è in circostanze paradigmatiche come questa che hai occasione di osservare le cose, diciamo così, in prospettiva. E dunque (senza voler assolutamente sindacare sui gusti delle masse, che è roba da schizzinosi e da snob, vero?) capita che quei due blockbuster cui accennavo ti appaiono in tutta la loro sciocca INUTILITA' . Mi riferisco ad una giuliva e "ridolina"  Meryl Streep coinvolta in una sciocchezzuola in cui leggi in filigrana tutta la svogliatezza e pochezza umoristica degli sceneggiatori di Hollywood, ma mi riferisco anche ad uno spompato Mel Gibson che fa il mammalucco ("dolente", ma và??) in un revenge movie riscaldato. Ecco, di fronte a questi due "filmetti" che qualcuno ci spaccia per "filmoni", chiunque ha un minino di buon senso, o chi ha gli strumenti (culturali?) per cercare nel cinema qualcosa che gli permetta di sfuggire dalla banalità e dall'idiozia, ecco dunque che appare stagliarsi all'orizzonte un film gigantesco, massiccio, monumentale, pur nella sua normalità di produzione indipendente. E quando dico "normalità" intendo un prodotto sincero, rigoroso, privo di quel ciarpame promozionale, senza quella fuffa propagandistica che accompagna tante inutili quanto luccicanti proposte hollywoodiane. E allora, dopo aver idealmente mandato a cagare Alec Baldwin e Mel Gibson, immergiamoci nel più devastante prison-movie degli ultimi lustri. Uno di quei film che (e ci ho pensato bene prima di scriverla, questa frase) ti cambiano la vita. Uno di quei "casi" cinematografici che ti capitano, se ti va bene, ogni decina d'anni. Le parole del dizionario che ti vengono subito in mente sono abbastanza abusate ma terribilmente necessarie: DEVASTANTE, SCONVOLGENTE, POTENTE. Ed è anche un pò singolare, se si considera che ne è sublime protagonista un ragazzo praticamente al suo debutto (finora solo un paio di ruoli secondari e piccole cose per la tv francese) e che il regista Jacques Audiard è, sì, cineasta apprezzatissimo tra i cinefili coi suoi 5 pregevoli film realizzati, ma certamente non di grande popolarità. Eppure questo film ha impressionato fin da subito prima il pubblico francese (facendo incetta di premi) e poi quello europeo ed oltre, fino alla candidatura all'Oscar. Va detto che questo è un film che si presenta da solo, in teorìa non avrebbe bisogno di tanto can can promozionale, basta guardare il trailer (anche quello assai suggestivo nella sua sintesi agghiacciante) oppure il cartellone ufficiale che richiama l'attenzione su quel volto di ragazzo che impugna una pistola, sfoggiando un'espressione a cavallo tra lo spaventato e il delinquente. Sicuramente "Un prophète" occupa già un suo posto "inamovibile" tra la decina dei film della mia vita. Di film che hanno come sfondo luoghi di detenzione ne abbiamo visti a centinaia....ma questo li colloca in un colpo solo tutti in secondo piano, per il suo crudo realismo che nulla ha di poetico o di letterario; qui lo spettatore viene quasi fatto penetrare dentro un carcere, ne respira l'odore stantìo ed immutabile, ne percepisce i rumori delle celle che si aprono e chiudono oppure i passi dei detenuti lungo i corridoi. Insomma, si entra, da spettatori partecipi e coinvolti, in quel "mondo a parte" che è il carcere, luogo senza scampo e senza legge, dove ognuno cerca la propria strada per sopravvivere, dove o si domina o si è dominati, dove il concetto di dignità assume risvolti tra il grottesco e il patetico, dove guardarti continuamente alle spalle è necessario come respirare, dove esiste una morale rovesciata in cui è virtuoso chi è spietato, con l'unica alternativa di diventare un fantasma che cammina. E' incredibile come Audiard ci faccia "respirare" questo film. Un realismo potente "esplode" dentro lo stato d'animo dello spettatore che si sente sovrastato e impotente di fronte al destino di questo ragazzo che là dentro prova veramente di tutto, sperimentando tutta la gamma di emozioni legate alla paura: spavento, orrore, disgusto, umiliazione. Eppure il nostro giovane Malik riesce a far passare tutto "attraverso" il suo corpo, cade e ogni volta si rialza, le ferite lasciano cicatrici che si rimarginano per lasciare posto ad altre ferite ed altre cicatrici. No, lui non cede, non va nel panico, non si lascia morire. Ma -attenzione- non lo fa da martire, nè da eroe, anche perchè non è essere virtuoso, non dimentichiamo che in fondo è un delinquentello. E, allora, cos'è che lo muove? Ecco, qui sta il punto e la chiave del film. E anche il suo enigmatico inesprimibile fascino. Lo spettatore viene indotto ad indagare (con la complicità di Audiard, e viceversa) nella mente e nella personalità chiusa e sfuggente, sostanzialmente inafferrabile, di Malik. Lo vediamo all'inizio sperduto, quasi sprovveduto, declinare le proprie generalità quando viene bruscamente accolto nel carcere. Lui è praticamente una tabula rasa, non sa leggere nè scrivere, bisbiglia solo qualche monosillabo, è un incrocio tra un pulcino spaventato e una bestia selvatica, una lavagna cancellata, senza passato nè futuro, con un presente popolato solo dal brusio e dai passi di detenuti e guardie. Oltretutto la sceneggiatura, volutamente, non ci fornisce alcun indizio sul suo passato nè sul motivo della sua detenzione, anche se possiamo intuire un'infanzia sbandata e un'adolescenza senza gioia e tutta in salita. Malik non fa in tempo a mettere piede in cella che è già una pedina, già parte di un meccanismo immutabile in cui ci sono solo lupi ed agnelli e bisogna scegliere in fretta il proprio ruolo altrimenti si diventa un bidone umano in cui gli altri rovesciano la loro immondizia. All'interno del carcere, ovviamente, si formano delle "aggregazioni", delle squadre, di cui le più consistenti sono quella degli arabi (o nordafricani) e quella dei còrsi. Ciascuna con dei propri codici, più di comportamento che "morali". Apparentemente gli arabi sono più "dignitosi": anche loro sfidano la legge e la società, anche loro sono dediti a traffici e "affari" di ogni tipo, ma comunque sembrano ispirarsi ad una parvenza di regole (morali?) probabilmente provenienti dai dettami della loro tenace fede religiosa. Diverso il discorso per i detenuti còrsi. Nessuna legge morale. Cinismo come sguardo primario con cui osservare la vita, la gente, il prossimo. Spietatezza assoluta. Nessun rispetto per i sentimenti di nessuno. Unicamente SOPRAFFAZIONE, RABBIA, CRUDELTA'. E un bisogno malato, patologico, disumano, di POSSEDERE le vite di bersagli umani prescelti, da dominare e manipolare. Ed è proprio questo che Malik si adatta ad essere: uno SCHIAVO. Un verme che striscia ai piedi del boss dei còrsi, il quale detiene ora ogni diritto sulla sua esistenza. Naturalmente, anche per diventare schiavo, Malik ha dovuto sottostare ad un rito di iniziazione che consisteva nell'assassinare un altro detenuto (in una sequenza di una crudeltà quasi intollerabile). Nel clan dei còrsi c'è una figura di capo, Cesar Luciani, che è straordinaria. Un vecchio dall'aria imperscrutabile, ora pacioso ora preda di furiosi attacchi di collera. In realtà si tratta di una figura cinematograficamente piuttosto complessa, di quelle che in sede di sceneggiatura è stato fatto un lavoro di fino, davvero encomiabile, se si è riusciti a "definire" i tratti di una personalità così ambigua e sfuggente. Un uomo che in certi momenti sembra quasi un guru saggio e in altri il più violento dei criminali. Egli, spesso chiuso in un inquietante gelido silenzio, scruta e osserva ogni movimento attorno a sè, e infatti sa tutto di tutti dentro quel carcere. E dunque quando anche la più piccola cosa sfugge al suo controllo (come appunto la mente e la personalità di Malik) lui va in corto circuito, va fuori di testa, non tollera che là dentro qualcosa non passi attraverso la sua benedizione (o maledizione). Abbiamo dunque due spunti per inquadrare la vicenda. Il rapporto "frontale" tra Cesar e Malik, il continuo confronto tra due personalità contrapposte, che subisce lentamente un percorso di modifica: prima Cesar è decisamente il gatto che crudelmente gode nel giocare col topolino Malik, ma poi quest'ultimo pian piano sconvolgerà quegli equilibri di potere, sfuggendo progressivamente al controllo di un Cesar schiumante di rabbia. Ma c'è un altro aspetto, forse più interessante: quello di cogliere la significativa evoluzione della mentalità e della personalità di Malik (altro plauso alla sceneggiatura, per aver dato carne, sangue e idee ad un personaggio molto complesso e ricco di sfumature). Egli, come si diceva prima, entra in carcere che è un "topo spaventato" ma, pur analfabeta, è soprattutto un ragazzo molto sveglio e molto pronto a recepire tutto quello (anche di sbagliato moralmente) che quel microcosmo gli può "insegnare" nell'ambito di un personale cammino verso un'agognata "autonomia". E, attenzione, non ho parlato di un percorso di "crescita" intesa come REDENZIONE (questo non è un banale prison movie!!) ma bensì intesa come un FARSI FURBO e liberarsi dalla schiavitù dai "capi di branco" e, magari, diventare spietato come loro, per invertire gli spazi di potere. Questo è un concetto importante: Malik non vuole affermare una propria dolente UMANITA', ma, anzi, capisce che deve fare suo un sano anarchico cinismo se vuole diventare così "cattivo" da poter fronteggiare e poi superare chi lo ha schiavizzato. Questo percorso passa anche attraverso la sua alfabetizzazione ma, anche qui, non c'è alcuna retorica nel suo studiare e imparare, nessuna "redenzione buonista", ma solo freddo calcolo per potersi affrancare da una sudditanza che lo fa fremere di rabbia. Tappa fondamentale del percorso di Malik è il momento in cui egli potrà usufruire di una serie di permessi di uscita dal carcere, perchè in quegli "spazi di libertà" lui riuscirà a gestire con sapienza il suo destino. Il film dura la bellezza di due ore e mezza, ma a parte che una sceneggiatura vivacissima le rende appassionanti e sostenibilissime, alla fine lo spettatore percepisce la curiosità di sapere cosa c'è oltre quei titoli di coda, intrigato da una conclusione che Audiard ha volutamente scritto come classico "finale aperto". Che dire? Si esce dalla visione appagati e "riempiti" da due ore e mezza di grande Cinema, secco, asciutto, rigoroso, per nulla compiacente, che evoca con toni realistici ed incisivi una storia altamente drammatica. Quanto al cast, i due attori che si dividono la scena, sono due Mostri. Due interpretazioni da Oscar, senza "se" e senza "ma". Però c'è una cosa da sottolineare. Niels Arestrup è attore già noto e piuttosto "navigato". "Sontuosa" la sua rappresentazione dell'anziano boss spietatissimo che però alla fine verrà costretto all'isolamento e all'umiliazione. Prova d'attore immensa: non è cosa comune vedere due occhi così gelidi che, molto meglio delle parole, esprimono un mondo di violenza e sopraffazione, magari colto in piccoli gesti quotidiani, tipo bere un caffè. Ecco, volevo giusto dire che di Arestrup già sapevamo, ma nessuno può dirsi "preparato" ad una rivelazione come quella del giovane Tahar Rahim. Questo ragazzo -quasi debuttante- mostra un talento sconvolgente, affrontando con successo un ruolo che avrebbe fatto tremare il più navigato degli attori, peraltro senza la minima sbavatura; portatore di un istrionismo "sano" e naturale, dove il gigionismo è totalmente sconosciuto (un attore famoso e "mattatore" avrebbe probabilmente rovinato tutto a beneficio del proprio ego). E mi fa anche tenerezza, se penso alle interviste con lui che ho trovato su You Tube, in cui Rahim appare sorridente e divertito, come un ragazzino che ancora non si è reso conto della grandiosità drammatica della sua stessa performance. Ogni film del filone cosiddetto "carcerario" prevede un messaggio che contempla un percorso personale di crescita e un obbiettivo di redenzione. Qua, al contrario, il segnale che si coglie è uno solo. Dal carcere non si esce mai MIGLIORI. Se ne sce PIEGATI o SPEZZATI (nella migliore delle ipotesi), oppure INCATTIVITI e RABBIOSI (in quella peggiore). E -forse- anche più violenti di prima. Film imperdibile.
PS: se escludiamo l'isolatissima splendida eccezione di GOMORRA, noi italiani non avremo mai le palle per fare un film come questo. Bene. E allora teniamoci pure Veronesi coi suoi comici di sinistra, i genitori, i figli, le fidanzatine, i fidanzatini, i telefonini, Bisio e la Littizzetto. Fermate il mondo. Fermate il cinema. Voglio scendere. 
Voto: 10 

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