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Il profeta

Regia di Jacques Audiard vedi scheda film

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La recensione su Il profeta

di ROTOTOM
8 stelle

Un prophéte è il film che ha sostituito Nemico pubblico n.1 di Jean Francoise Richet nel monopolio dei premi César, aggiudicandoseli praticamente in tutte le categorie e che si è visto sfilare di mano un Oscar quasi certo come Miglior Film straniero. E’ un solido e compatto polar carcerario, un film di genere di raffinato rigore stilistico, lucido e disilluso è il capolavoro di Audiard che arriva dopo i già ottimi Tutti i battiti del mio cuore e Sulle mie labbra.
 Malik El Djebena (Tahar Rahim) è uno smarrito diciannovenne quando entra in carcere per scontare una pena di sei anni. Entra nell’universo carcerario con lo sguardo della vittima stampata in faccia. Senza protezione, insidiato dai predoni delle docce, analfabeta, è un vergine da plasmare a piacimento. Il padrino Cesar Luciani, corso, lo prende sotto la sua ala e lo inizia all’attività di sopravvivenza all’interno del carcere. La prima lezione, obbedire e uccidere. O essere ucciso.
C’è un dio che ha scelto, evidentemente e ha scelto Malik l’eletto che inizia il suo percorso di formazione entrando in carcere, il suo nuovo Eden corrotto e malsano. Un prohéte è il titolo originale, con l’articolo indeterminativo a significare che di gente come lui, molto probabilmente ce n’è altra, profeti di una Francia che cambia e di cui il carcere ne è l’immagine in scala, una palestra di vita.
Audiard sceglie una messa in scena aspra, grezza tutta filmata in una plumbea  luce naturale ed echeggiante dei suoni della quotidianità carceraria. Un crudo realismo documentaristico squarciato da fiammate di onirico surrealismo nel momento in cui la porta della cella di Malik si serra liberandone i fantasmi.
 Inquadrature strette su spazi angusti e claustrofobici ingombri di corpi e voci, lingue che si rincorrono e si perdono,  il carcere è descritto come una zona franca di violenza in cui i clan si dividono il poco spazio e i commerci illeciti in un contesto di  ipocrita impunità.  I corsi, gli arabi, i francesi, con i rispettivi idiomi nemici  rappresentano il fallimento dell’utopica civiltà multietnica di fatto frantumata in etnie in lotta fra loro  regolate da codici tribali imposti dai capi clan. L’iconografia classica del padrino un po’ padre e un po’ padrone dei film sulla mafia italoamericana, il saggio portatore di un’etica certamente distorta ma a suo modo giustificata dalla nobiltà nostalgica di una cultura arcaica viene smentita dalla splendida presenza di Niels Arestrup /Cesar Luciani, assassino. Semplicemente.
 Malik invece è un uomo nuovo, moderno, non è piegato a nessuna fede, impara in fretta tre lingue e comunica. E’ trasversale, flessibile, opportunista. Come un  manager cambia padrone con complice fedeltà ogni volta che il vento cambia direzione e scala la gerarchia sociale carceraria con facilità. Poi fa lo stesso nel mondo libero che trova  al di fuori del carcere, poiché le regole sono le stesse, la stessa esasperazione, le stesse prevaricazioni, gli stessi meccanismi di potere e soprattutto l’assenza totale di alcuna giustizia istituzionale. Il film è  magnificamente costruito per creare assonanza tra i due mondi divisi dalle sbarre del carcere, sbarre che si riflettono spesso sul corpo di Malik alludendo ad una naturale condizione metafisica dello stato di carcerato dell’uomo che attraversa la  società contemporanea. Dopo tutto egli è perfettamente inserito negli spazi che occupa, svuotato di qualsiasi passato e privo di qualsiasi intima coscienza ne è la diretta emanazione, il mezzo tra l’ambiente dal quale apprende e il fine sul quale scarica l’insegnamento facendo proseliti mentre dalla comunità carceraria trasla la mutevole identità di cui abbisogna per sopravvivere. L’ultima scena del film svela molto di sei anni di duro “lavoro” da parte di Malik,  l’inquadratura si allarga come per liberarlo dall’ingombro di muri, sbarre, corpi, ostacoli, prove che ha dovuto superare per elevarsi ad un livello superiore. Un profeta che porta su di sé tutti fallimenti di una società che aspetta solo di essere conquistata.
 

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