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Antichrist

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Antichrist

di logos
8 stelle

Commentare un'opera dopo 6 anni è una cosa abbastanza facile, se non altro perchè hai modo di confrontarti con altre recensioni, che oltretutto, in questo sito, sono veramente straordinarie, e difficilmente ne ho trovate di questo calibro in altri luoghi virtuali a me conosciuti. Pertanto, non posso aggiungere nulla che sia già stato detto meglio di me, soprattutto per quanto riguarda lo stile dell'opera, il suo rimando ad altri registi, i dettagli tecnici e quant'altro di bello e di conturbante che connota un capolavoro del genere.

Per quel che mi riguarda, mi limito soltanto a dare un'interpretazione personale del film, consapevole che esso è suscettibile di innumerevoli prospettive, rimanendo, proprio per questo, un cantiere ermeneutico aperto, che stimola la mente, e già solo per questo fatto risulta un evento di alta pregevolezza, rara in questi tempi. 

 

Trama e interpretazione in omaggio a Nietzsche e alle streghe

 

Un uomo e una donna, coinvolti in un amplesso mentre il loro bambino, svegliatosi, assiste alla scena primaria, curioso si affaccia alla finestra, si sporge e precipita in armonia con il cadere danzante della neve. Tutto succede al rallenty, ma non si nota nulla di sofferto, anzi, il bimbo mentre si approssima alla finestra fa cadere le statuette su cui appaiono i nomi dei tre mendicanti: pena, dolore, disperazione. Nell’altra stanza l’amplesso continua, fino a giungere quell’estasi orgasmica che coincide con la morte stessa del bambino dopo un lungo volo, azzardiamo pure di libertà, verso il baratro. Niente rumori diegetici, ma solo un ripresa estatica, sovrastata dall’aria di Handel “Rinanldo”: lascia ch’io pianga la cruda sorte, e che sospiri la libertà! E che sospiri, e che sospiri la libertà! Lascia ch’io pianga la cruda sorte, e che sospiri la libertà.

 In questo prologo, sembra quasi difficile non pensare alla sequenza sessualità-procreazione-morte. Ma quello che la coppia non riesce ad accettare nella loro razionalità etica di esseri umani è lo stretto connubio tra sessualità e morte, poiché a farne le spese del loro piacere sessuale è proprio il bambino, “accidentalmente precipitato” dalla finestra di casa. Non solo il bimbo, andando incontro alla morte, fa cadere le tre statuette della pena, del dolore e della disperazione, ma anche l’atto sessuale, per quel comporta come morte, sembra essere purificato dall’acqua che accidentalmente cade da una bottiglia e dalla ripresa dei panni in una lavatrice. Che cosa ci vuole dire il regista? Indubbiamente in primo piano è la sessualità, con le sue pulsioni di vita e di morte, intesa come dionisiaca espressione della natura, ma che nella razionalità etica non può essere accettata se non come una colpa, o addirittura come un peccato d’origine se non è finalizzata alla procreazione. Eppure, questa stessa sessualità, di per sé, nel suo intreccio di vita e di morte, è la natura stessa, che distrugge, con la morte del bambino (e svincolandosi così dalla procreazione), la pena, il dolore e la disperazione; è un paradossale movimento di libertà, in cui la vita afferma la morte e viceversa, secondo l’ordine ciclico del senza-tempo o, meglio, secondo quella ciclicità che rimossa dentro di noi costituisce non solo la natura, ma lo stesso Es o Inconscio, con la cui rimozione è possibile la civilizzazione famigliare e dell’intera umanità omologata nella cultura, in perfetto stile freudiano.

 

 Rivediamo la coppia nel secondo capitolo, dove la donna è immersa nel dolore. La prima cosa che salta agli occhi, nell’ambiente claustrofobico della casa, è che la donna è immersa in una sofferenza sordida, l’uomo, invece, cerca di dare un senso razionale agli eventi accaduti. Ma perché la donna è immersa in questo dolore? Per la perdita del figlio? Naturalmente. Ma c’è qualcosa di più... Un senso di colpa, comprensibile, ma che diventa una vera e propria ossessione: lei si sente materialmente colpevole della morte del figlio, creato, e, possiamo dire, di tutto il creato. Si viene a sapere, in dialoghi tra i coniugi, a tratti spiritualmente violenti, che era proprio lei, come donna e come madre, consapevole del fatto che il bambino era in grado di svegliarsi di notte e allontanarsi; ma al tempo stesso giudica suo marito lontano, incapace di comprenderla, perché proprio l’anno prima è stata sola con il bambino per (non) finire la sua tesi, nella loro casa presso il bosco Eden, e lì ha provato un’ansia terribile, tale per cui non ha terminato la sua tesi. Ma tutto questo lo riversa contro il marito, incapace di sentire lo spirito del dolore di lei. Ma inoltre è sempre lei, come si capirà nel proseguo del film, ad aver notato il figlio salire su per la finestra e precipitare, e come si evincerà dai referti dell’autopsia è sempre lei che già dall’anno prima, in quel bosco, vestiva il bimbo indossandogli le scarpe al contrario, deformando i suoi piedini.

 

La pena di questa donna è dunque qualcosa che va alla radice, che va oltre il piano della razionalità etica. Rappresenta la dilacerazione antinomica tra natura e civiltà. Da una parte essa sente di essere parte della natura, che di fatto non vuole tradire, nel suo binomio sessuale di vita e di morte, che non procrea, o che procrea solo per distruggere, ma, dall’altra parte, non ne vuole essere più complice, per via dell’infanticidio che ha inferto. Ma in entrambi i casi è votata allo scacco. Perché se si abbandona alla natura tradisce la civiltà, se si riconquista nella civiltà tradisce la natura. Il suo diventa un dolore metafisico, comprensivo di tutto il conflitto inesorabile tra natura e civiltà, tra dionisiaco e apollineo, mentre lui, il marito, lo psicoterapeuta, il dolce inquisitore, la punta dell’iceberg, rappresenta la razionalità, che vuole guarire la propria donna, ma nel guarirla non fa che trasportarla in una sola faccia della medaglia, nella civiltà, contro l’altra, infliggendole ulteriore sofferenza.

 

 

Nel terzo capitolo, Pena: il caos regna, e quarto capitolo, Disperazione, il marito si propone con la sua volontà psicoterapeuta di guarire/distruggere la donna. Secondo il suo programma razionale occorre affrontare le paure, che lei le riviva per uscire dalla depressione anomala. Cosa le fa più paura? Il bosco di Eden, perciò si decide di andare proprio là, per rivivere le paure ed esorcizzarle. Ma il bosco è l’impenetrabile regno della natura e dell’inconscio, dove regna il Kaos, il dionisiaco, dove vita e morte si intrecciano, dove la vita non è altro che un accidente della morte, perché la morte ripete se stessa attraverso la vita, che continuamente ritorna per far vivere la vita, quale alimento della morte continua. Quando Nietzsche parla dell’Eterno Ritorno, in uno dei suoi frammenti postumi, dice una cosa sconcertante: l’eterno ritorno del medesimo non è l’eterno ritorno della vita, ma l’eterno ritorno della morte di cui la vita non è che l’espressione accidentale. La volontà di potenza, insomma, è volontà distruttiva, che dice sì alla vita per poterla superare in altra vita attraverso una morte continua. E così Dioniso non è che il trionfo bacchico della morte, di cui la vita è l’aspetto speculare, che priva di freni inibitori si inebria della morte. Questa è la volontà di potenza che regna come Kaos, e che sorregge i viventi, in modo che Eros sia funzionale a Thanatos. La moglie, che penetra nel bosco accompagnata dalla sicurezza apollinea del marito, in realtà sa già tutto questo. Sa che in quel bosco troverà la parte rimossa dell’Es, del dionisiaco, e ne prova panico. Perché ritrovare se stessa nel bosco, significherà anche l’inevitabile perdita della razionalità, l’allontanamento da parte del marito dall’incomprensibile, che lei non potrà non personificare. In fondo è lei che scorge il pianto vivente della natura, la pena di tutte le cose viventi condannate a morire, come le ghiande che continuamente battono sui tetti della casa nel bosco: “quando esse battono sul tetto della casa sono già morte”. Ma il marito non crede a queste cose, tutt’al più sono una bella considerazione per una favola per bambini. Di fronte a questa tracotante razionalità, la donna compie una scelta, quella di essere dalla parte della natura, di immergersi nel dionisiaco, che si esprime in una repentina guarigione. Ma il marito resta incredulo a tale guarigione, non la riconosce come tale, anche perché in lui, nel frattempo, avvengono dei mutamenti interiori, nel senso che inizia a vedere cose al di là del comprensibile: il daino che nel suo volteggiare trascina con sé, in una scena cruenta, il cucciolo che gli sta per partorire; la volpe che gli parla con una voce infernale asserendo che il caos regna; inoltre la moglie, completamente ripresa, tenta il marito più volte con il suo desiderio sessuale, fino alla scena culminante in cui la donna si masturba nel bosco, raggiunta poi dal marito che la possiede sul tronco dell’albero (albero della vita ma anche della conoscenza), dove compaiono mani di cadaveri. La simbologia diviene sempre più spinta. Ma forse ci troviamo di fronte a una fase delicatissima. La donna che ha scelto Dioniso non è ancora completamente libera di essere immersa nell’ intreccio vita/morte della natura, perché il suo orrore è comunque quello di perdere il marito chiuso nella sua razionalità inquisitoria. D’altro canto l’uomo, che si lascia travolgere dalla sessualità della donna, inizia ad avvertire che la propria razionalità vacilla. Entrambi avvertono l’uno nell’altra il proprio smarrimento: la sessualità vivente ma distruttiva di lei è al tempo stesso ancora legata alla razionalità mortifera di lui, la razionalità mortifera di lui è al tempo stesso legata alla sessualità di lei. Ma mentre la sessualità non riconosce la vita come valore in sé, a sua volta la razionalità non po’ accettare una sessualità che riconosce la vita solo come momento temporaneo della propria espressione distruttiva. Tutto ciò conduce al capitolo successivo, quello della disperazione.

 

Qui si constata chiaramente, in una serie di flash back, che la donna vede il bambino salire sul mobile e cadere nel vuoto dalla finestra; non ferma il bambino, perché la sessualità dionisiaca considera la vita come un momento della morte. Inoltre emerge con chiarezza che la donna indossava sistematicamente al bambino le scarpe al contrario, per costringerlo all’anomalia dei piedi. Questi sono atti compiuti per rimarcare una sessualità svincolata dalla procreazione e votata alla sofferenza inferta e subita. Dal canto suo l’uomo prende coscienza dell’irrazionalità in cui è immerso, e se ne difende cercando di prendere in modo silente congedo dalla moglie. Arriviamo al centro della disperazione. La donna e l’uomo non possono dialogare, trovare un punto di intesa. Lei esprime la natura dionisiaca da sempre rimossa dalla cultura fallocentrica, mentre lui, come uomo, è l’inquisitore, il misogino, colui che per rendere possibile la civilizzazione ha dovuto rimuovere la natura nella sua insensatezza crudele; civilizzazione che ha avuto come sua raffigurazione esemplare l’eccidio delle streghe durante i secoli post-luterani. Non dimentichiamo che l’eccidio per stregoneria è stato maggiore nei paesi protestanti che in quelli cattolici.

 

Nel finale, la donna, con un atto di inaudita violenza, assale il marito, conficcandogli nella gamba una ruota di pietra. Alcuni hanno trovato un’analogia tra questa tortura e il laccio della scarpe al contrario al figlio. Ciò è motivato dal fatto che la donna, secondo questa interpretazione, non vuole che gli esseri umani possano rivolgere gli occhi al cielo, ma restino conficcati nella madre terra. E’ un’interpretazione possibile. A me piace pensare che il laccio delle scarpe al contrario rappresenti la sofferenza inferta dalla natura alla vita individuale, la quale deve essere una passaggio transitorio, che rinnova la morte. Mentre la tortura inflitta al marito è forse una strategia più complessa. Da una parte esprime la consapevolezza della donna che suo marito se ne andrà dal bosco e l’abbandonerà. Dall’altra esprime un moto di violenza contro la repressione della cultura che in nome della civilizzazione ha represso la natura. Si tratta di un gesto ambivalente, dettato da un amore non corrisposto e da vendetta. Un’ambivalenza che conduce la donna alla mutilazione del clitoride, come gesto estremo di neutralità, sia dalla natura che dalla civilizzazione. Solo che l’uomo vuole recuperare la sua razionalità, liberarsi dalla ruota di pietra, e dopo un altro ferimento inferto dalla moglie, si decide ad ammazzarla e letteralmente a bruciarla, in un rogo, facendole fare la fine della strega.

 

Oramai le carte sono svelate. In un percorso labirintico, dantesco, infernale, il civile marito si ritrova ad essere quello che era sempre stato, un inquisitore, un uccisore di streghe, l’apollineo platonico-cristiano-borghese che ha dovuto recidere i legami con il dionisiaco per costruirsi un’identità fallocratica che connota la civiltà occidentale. E mentre se ne esce dal bosco, tutte le vittime femminili dell’inquisizione civilizzatrice emergono in un quadro vivente; come una marea dionisiaca di ombre gli si attorniano. Per fare che? Per perdonarlo, per linciarlo, per assorbirlo a sé, o per ricominciare un dialogo tra apollineo e dionisiaco in quel momento miracoloso della tragedia attica di nicciana memoria?

 

Per ridire il già detto in maniera sintetica, mi sembra che nell’opera sia centrale il conflitto tra il dionisiaco e l’apollineo. La donna rappresenta il dionisiaco ma non vuole rinunciare all’apollineo, mentre l’uomo rappresenta l’apollineo ma non vuole rinunciare al dionisiaco. La donna non rinuncia all’apollineo ma a condizione che esso accetti il dionisiaco con tutto il Kaos che ne consegue, l’uomo non rinuncia al dionisiaco ma a condizione che rimanga sottomesso all’apollineo, con tutto l’ordine reificato che ne consegue. Nell'impresa impossibile del riconoscimento, la violenza diventa l'unico criterio di confronto, e l’elemento vincente è il dionisiaco, che con la sua vittoria annienta qualunque senso civile di riscatto, lasciando libero il canto liberatorio e distruttivo della natura, che soffre e fa soffrire. Accettare questo canto significa, e qui azzardo, un tentativo nichilistico per riservarsi la depressione come amica, senza più appello al fondamento, che sarebbe oltretutto un fautore ulteriormente depressivo. Un film dunque contro la depressione, ma accettandola in tutta la sua interezza, sapendo che l'unico modo per dissuaderla è farla finita con le vie di fuga e di guarigione, salvifiche.

Un’opera dunque struggente, che non lascia scampo, dove l’unica parola resta alla sofferenza universale, inflitta e inferta nel suo libero gioco di vita e di morte. Sul piano strettamente filosofico, è un vero e proprio omaggio a Nietzsche, ma anche un trionfo sofferto e travagliato delle streghe contro la misoginia, che a tratti lascia intendere a un Cristo eretico contro l’Antichrist platonico cristiano fallocentrico. Avrei tante altre cose da dire, ma si trovano nelle altre recensioni che ho consigliato. Se questo film ha creato tanto scompiglio nel bene e nel male, è perchè in esso palpita qualcosa di autenticamente vissuto, sofferto e accettato, fino a farlo livitare in una visione del mondo, nichilista e catartica ad un tempo.

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