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Antichrist

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Antichrist

di lorebalda
10 stelle

 

Anticinema.

 

 

Due anni fa ho sofferto di depressione. È stata una nuova esperienza per me. Tutto, non importava cosa, sembrava poco importante, banale. Non potevo lavorare.

Sei mesi più tardi, solo come esercizio, ho scritto una sceneggiatura. Era una specie di terapia, ma anche una prova, un test per vedere se avrei mai potuto fare un altro film. La sceneggiatura fu finita e messa in immagini senza molto entusiasmo, utilizzando circa metà delle mia capacità fisiche e intellettuali. Il lavoro sulla sceneggiatura non ha seguito il mio usuale modus operandi. Le scene furono aggiunte senza ragione. Le immagini furono associate libere dalla logica o da un ragionamento drammatico. Esse spesso venivano fuori dai sogni che stavo facendo in quel periodo, o da sogni che ho fatto precedentemente nella mia vita.

Ancora una volta, il soggetto era la “Natura” ma in un modo differente e più diretto rispetto al passato. Un modo più personale. Il film non tiene conto di nessun specifico codice morale e ha soltanto quelle che alcuni chiamano le “necessità base” di una storia.

Ho letto Strindberg quando ero giovane. Ho letto con entusiasmo le cose che ha scritto prima di andare a Parigi per diventare un alchimista – il periodo chiamato la sua “crisi infernale”. Antichrist è la mia “crisi infernale”? La mia affinità con Strindberg? In ogni caso, non ho nessuna scusa da offrire per Antichrist. Se non la mia assoluta fede nel film – il più importante della mia intera carriera” (Lars Von Trier)

 

È il film più affascinante di Lars Von Trier, mai stato così punitivo, così delirante.

Antichrist è un film barocco, esagitato, quasi zulawskiano. Un maelstrom di ispirazioni, suggestioni: Nietzsche, Freud, Baudelaire, Munch, Strindberg, Bergman, Bosch, Kierkegaard. E Tarkovsky, a cui il film è [provocatoriamente?] dedicato. Film di violenta rottura, dunque, film scandalo, film-che-divide, film aldilà del bene e del male, del buono e del cattivo gusto. Non solo: Antichrist è anche un film di dolore e disperazione veri. Un'impostura sincera.

Il coraggio di Antichrist [e di Von Trier] sta nel modo [diretto, senza pudore] con cui si confessa allo spettatore, immediatamente, fin dalle prime immagini, come opera ultima, provocatoria [il dettaglio hard sbattuto in faccia al secondo minuto]. Non solo. Antichrist è anche un esercizio terapeutico, un esorcismo: come Dans Ma Peau di Marina De Van, come Possession di Andrey Zulawski, come Offret di Tarkovsky, è un film limite, sta fra il cinema e l'anticinema – oltre la visibilità ma non solo, pure avanti l'invisibile [le carni macellate, violate, sofferenti], tutto dentro l'abisso, il nero della visione.

Per questo Antichrist può essere considerato a tutti gli effetti un film dell'orrore cinematografico: d'altronde l'horror vacui, la paura che il film finisca una volta per tutte, ha sempre attraversato l'opera di Von Trier.

 

http://www.youtube.com/watch?v=qRMPszM_sZs [prologo]

 

Dunque Antichrist è un film decisivo. In piena depressione, Von Trier decide di combattere il vuoto con il vuoto, l'oscurità con l'oscurità. Per questo oppone alla sua [nostra] paura della fine un esibizionismo stilistico impressionante, un formalismo eccessivo ed esagitato, barocco, fintamente pieno perché in fondo vuoto, desolato – un formalismo mai libero o gioioso, terrorizzato piuttosto.

Non c'è più spazio per l'invisibile, o per la grandiosa utopia tarkovskyana di una possibile fluidità della visione: la dedica finale non inganni, Antichrist è un film rovescia radicalmente l'opera del maestro russo, in particolare Offret. Il cinema, per Von Trier, non dice [più] nulla, non parla [più] a nessuno [“non faccio film per il pubblico”], l'immagine non può che essere catarsi, spettacolo della violenza, corpo a corpo di “segni” [il cinema è un fatto di mise en scène].

Antichrist è questo: violenza, esibizione mastubatoria, celebrazione e morte dell'artificio cinematografico.

 

 

Antichrist racconta un'impossibilità: perché nonostante tutti i suoi ralenti, tutte le sue belle immagini, gli insopportabili vezzi stilistici, il film non riesce nell'utopia tarkovskyana di scolpire il tempo, fissarlo su un'inquadratura. Prendere l'invisibile.

Gli artifici di cui abusa Von Trier rimangono tali [d'altronde mai ci fu realismo più finto di quello professato dal Dogma]. E il regista ne è assolutamente consapevole. Sono inutili. Ma come farne a meno, come rifiutare l'ultima sublime illusione, si chiede Von Trier?

Per questo che l'immagine si gonfi e si sgonfi, che i contorni visivi sfumino pure: tanto l'immagine [ci] inganna, e vedere non è conoscere, piuttosto è possedere, violentare, astrarre (Dogville), colpire e far soffrire. In Antichrist tutto è esibito, la struttura stessa del film è presentata in tutta la sua fragilità. L'invisibile non esiste più, né come invenzione dentro il film [musical, set teatrale, campane digitali] né come possibilità fuoricampo [il cinema tarkovskyano]: rimane qualcosa di volatile e momentaneo, impossibile da toccare, che si può solo guardare. La trasparenza di Antichrist è tutta negativa, tant'è che le immagini-mentali del film sono impossibili da leggere. Piccoli abissi di senso.

 

http://www.youtube.com/watch?v=uCG8RQGc0zU [immagina di essere ad Eden]

 

Che cosa è dunque Antichrist? Cosa ci resta del film? Immagini-sogno, immagini-incubo, immagini-tempo. Il nulla, il vuoto, l'angoscia, la violenza del guardare, la negatività di un vedere che è un divorarsi, un possedere per esserci. Von Trier si [ci] chiede: questa violenza, questa negatività, quest'abisso, esibire ed esibirsi, tutto questo non è forse l'essenza del cinema stesso, di un vedere che tutto prende e cattura? E non è forse il senso della mise en scène, l'evidenza taciuta di tutte le rappresentazioni, abbellire ed esorcizzare questa violenza?

Dunque mai così sincero, mai così disperato. Antichrist è cinema catartico, un esercizio terapeutico: Von Trier ad un certo punto sembra confessare le sue debolezze. I suoi desideri. Il regista danese vorrebbe liberarsi di tutto [narrazione, psicologie, corpi], fare un cinema di violenza e basta [il torture porn: quanto siamo vicini lontani da Nymph()maniac?]. E, nonostante l'apparato simbolico della prima parte del film, Antichrist va proprio in questa direzione.

Forse, azzarda qualcuno, Von Trier ha smesso di nascondersi. È sincero. Eppure va detto che i segni, i simboli [i cartelli interpretativi], continuano ad essere esposti grevemente. La mise en scène non scompare mai davvero, non si cancella. Von Trier non esita a sovraccaricare l'immagine, appesantita da artifici di ogni tipo [ralenti, suoni deformati, bianco e nero, colore pieno, divisione in capitoli]. E l'immagine sembra non reggere, collassa sotto il peso di una tale stratificazione visiva.

La seconda parte di Antichrist manda all'aria il rigore, i personaggi, l'angoscia, la narrazione. Tant'è che viene da pensare che Von Trier abbia raggiunto davvero la radice della sua arte e che, scoperto il vuoto che si cela dietro di essa, terrorizzato, abbia provato a nasconderlo [e nascondersi] travestendo la fine del [suo] cinema [la vittoria dell'anticristo, dell'anticinema] con un tripudio di effetti visivi e facili shock.

Ma per arrivare a cosa?

 

Togliamo tutti gli orpelli, mettiamo da parte i falsi segnali. Ancora: che cos'è l'oggetto-abisso Antichrist?

Una sorta di punto zero. Una resa dei conti primordiale [ritorna in mente Anatomie de l'enfer di Catherine Breillat], in cui due personaggi soltanto, Lui e Lei (l'uomo e la donna, il maschile e il femminile, lo sguardo e il cinema) si affrontano: un corpo a corpo che prima fa a meno delle parole, poi dei simboli. Antichrist di Von Trier diventa presto lo scontro e la sofferenza immediati, non più nascondibili – e quel che resta di artificioso è diventato compiacimento.

Ecco che cos'è Antichrist: la negatività abissale del vedere e del vedersi, dei corpi ridotti a carne da macello. È cinema impossibile, senza sbocchi, dell'horror vacui.

Mai prima di Antichrist, prima di Von Trier, un regista aveva avuto il coraggio di affrontarsi e schernirsi così, con una tale paura, mista ad irresistibile fascinazione, della falsa fluidità del proprio segnocinema, della mise en scène. Di se stesso.

 

Nessuno sa di preciso per quali motivi si cada in depressione, ma io ho una mia teoria. Sono anni che combatto contro alcune fobie e credo che quando le fobie diventano intollerabili, il corpo cerchi in un certo senso di prendersi una pausa, e in questa situazione si cade in depressione.

L'intensità della depressione può variare, e alcune persone vogliono gettarsi giù da un ponte. Ma nel mio caso non è stato così. Anche se forse alcuni critici cinematografici l'hanno sperato” (Lars Von Trier)

 

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