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Antichrist

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Antichrist

di spopola
8 stelle

Un grande film pieno di simboli torbidi e magmatici con i quali il regista prova a dare un'immagine al male fra caos, psicosi, delirio, violenza, lutto e dolore. Ma se il dolore non può essere estirpato, si può tentare almeno comprenderlo, contenerlo, sublimarlo e lasciare che sia...

Io credo (sono anzi fermamente convinto) che comunque la si pensi (e Von Trier è uno che porta facilmente ad “estremizzare” il pensiero da una parte o dall’altra) non sia mai possibile liquidare  la sua opera – e men che mai questo Antichrist – con l’eccessiva supponenza con cui viene spesso messo alla berlina da chi gli attribuisce semplicemente la voglia di essere “provocatorio” che pure è a volte una componente non secondaria (ma non univoca) del  suo fare cinema. Mi pongo infatti  in una posizione neutra (per quanto possibile), nel senso che non lo amo follemente, ma certamente non lo “rifiuto” nemmeno a prescindere, come si dice in genere in questi casi, così che i miei giudizi sui risultati in campo sono forse  “altalenanti” (lo è per me il suo percorso artistico),  ma mai distruttivi nemmeno quando mi devo raffrontare con un sotterraneo “senso di irritazione” che anche in me a volte suscita – devo ammetterlo – quel suo, “all’apparenza”, andare oltre: cerco anzi in queste situazioni più estreme, di non lasciarmi “corrompere” da quel disagio disturbante che ha cagionato la “chiusura” (spesso intenzionalmente, e dal suo punto di vista, con assoluta legittimità, visto che si tratta di scelte  sempre “ragionate” e mai casuali)  e che spingerebbe  inevitabilmente, almeno nell’immediato, a privilegiare la reazione dell’avversione,  quel sentimento indotto quasi di “ripulsa”  che se lo lasci poi sedimentare, ti consente invece quasi sempre di “comprendere meglio” (più o meno, e a seconda delle circostanze, ovviamente) e di apprezzare poi il senso ultimo di quelle  “dissacrazioni” forse un tantino programmatiche (a volte), ma comunque necessarie per il “disegno” complessivo (la tesi), il progetto, l’architettura cinematografica del manufatto che ha così “rumorosamente” deflagrato sullo schermo (e spesso anche dentro la coscienza dello spettatore) poiché ti permettono di comprendere cos’è che è stato  messo in movimento facendolo emergere dal profondo dell’inconscio, visto che c’è sempre una spiegazione molto personale e “interna”  dietro a un rifiuto così categorico. Perché al di là delle tematiche e delle “definizioni teoriche” della forma, che Lars Von Trier sappia “girare” con cognizione di causa, riesca  a impaginare bene la preziosità (o la sciatteria, a seconda della strada “strategicamente” scelta che è spesso imprevedibile e contrapposta) delle immagini, è un pregio fondamentale che gli deve essere in ogni caso riconosciuto. Di conseguenza, se non fosse per altro che per questo, almeno in considerazione di ciò, dovrebbe essergli concesso da chiunque (mi riferisco principalmente alla critica naturalmente) il “privilegio” di una analisi strutturale senza preconcetti e “partiti presi” così da far  emergere e motivare – anche se in negativo, non importa - un circostanziato “giudizio di merito” ben lontano dalla tracotanza un po’ sfottente che a volte si avverte dietro le parole (il fatto stesso di suscitare odi così profondi e amori altrettanto viscerali,  di dare vita a discussioni così radicalmente “divergenti”, è un segno di “vitalità” e di “coinvolgimento passionale” che nello spesso asfittico conformismo del cinema contemporaneo dovrebbe invogliare ad essere “attenti” scrutatori e interpreti del suo speciale – insolito - approccio al  mezzo).  La mia premessa di carattere generale, vale anche  e a maggior ragione, per il “lapidato” risultato (a Cannes - ma non solo - è stato “sbeffeggiato” come più e peggio non sarebbe stato possibile) di questa sua  ultima, problematicissima opera che – lasciatemelo dire subito – si avverte invece, se ci si spoglia dei pregiudizi,  particolarmente sentita, davvero “importante” e necessaria prima di tutto per lui e per il suo percorso esistenziale (una specie di viaggio liberatorio, una autoanalisi indotta nella coscienza), che rappresenta - e anche questo è indubbio, se si riesce a cogliere il travaglio che ci sta dietro - una “terribile” esperienza quasi “confessionale” e  non soltanto una meditazione riflessiva su uno status. Il film, per come è condotto, può determinare, è indubbio,  anche  un netto “rifiuto” nello spettatore, non lo nego, anzi!!, ma  non può essere “archiviato” con troppa frettolosa superficialità proprio per le tante “cose” che mette in campo. Intendiamoci bene: non voglio assolutamente fare una difesa d’ufficio: cerco semplicemente di essere imparziale e di spiegare al riguardo il mio personale punto di vista. Comprendo e conosco perfettamente  tutto ciò che ha potuto infastidire,  dare noia , creare il “rigetto”, poiché anche io non sono stato esente dal provare analoghe sensazioni: mi è accaduto proprio qualcosa di simile all’inizio, durante la visione in sala, quando ho avvertito e voleva essere predominante, quel particolare “scompenso sensoriale” tutto in negativo (e in quei momenti l’ho quasi detestato), che mi ha fatto stare molto male anche fisicamente, come se fossi avvolto da un crescente senso di nausea per quegli eccessi “distruttivi” esasperati e reiterati, e con la tentazione per questo, di fuggire precipitosamente lontano per non essere “devastato” fino in fondo). Ma poiché non sono sufficienti né “una volpe che parla” a farmi diventare ironicamente caustico, né  tanto meno quelle scene di crudo, insistito, “insopportabile” realismo  a “costringermi” a desistere dall’andare avanti nella visione, ho volutamente sfidato la mia “resistenza” e ho deciso di “subire” il fastidio e, lentamente, mi sono sentito trascinato sempre più nel gorgo, fino ad essere trasportato dal flusso avvolgente delle immagini a mia volta “dentro a quel bosco” (anche per me una specie di “autoanalisi indotta”?),  perché è proprio lì che io credo  mi (“ci”) volesse portare il regista, un bosco terrificante e malefico, dove ancora oggi (ed passato qualche mese da quando sono andato a vederlo) io mi aggiro scoraggiato e attonito, sopraffatto dalle mie paure e dai miei sensi di colpa, senza riuscire a ritrovare la mia “personale” via per uscirne di nuovo fuori a causa dei tanti (“troppi”) punti di contatto identificativo che ci ho trovato, che non attengono tanto ai fatti narrati, quanto alle “posizioni mentali” descritte (ma questa è una condizione più privata che universalizzabile e forse allora non può nemmeno fare testo ed è meglio accantonarla). Del resto,  (e cerco così di ritornare sul generale) se spesso si “salva” o si da la sufficienza a un’opera solo per particolari, “marginali” elementi  che - in un marasma di anemiche inadeguatezze – riescono a stimolare (risvegliare) qualche “senso” un po’ sopito, come una “splendida fotografia” o una “entusiasmante colonna sonora”, se ci si appiglia a una recitazione “particolarmente azzeccata,” o a qualche scena “fortemente empatica” per dire che “comunque qualcosa di buono ci stava”, non vedo come persino da parte di chi non ha gradito, o dei denigratori più accaniti,  non si debba essere anche qui un po’ più  clementi, visto che (e questo è un risultato in ogni caso assodato, indipendentemente dal resto, che per me è poi consequenziale, ma non necessariamente potrebbe esserlo per tutti) per lo meno la scena d’apertura è un “capolavoro assoluto”, perfettamente compiuta in sé,  addirittura “ineccepibile”,  dove immagini (lo splendente nitore di un inedito bianco e nero),  musica (la straordinaria aria dal Rinaldo di Haendel, “Lascia ch’io pianga / mia cruda sorte / e che sospiri la libertà. / Il duolo infranga queste ritorte / de’ miei martiri sol per pietà” che sembra scritta apposta per essere la lacerata colonna sonora di “quel” momento) e movimenti (con un inusuale, inedito “rallenty” quasi sincopato che sembra voler  dare corpo alla fisicità statica di un album fotografico “mosso” dall’interno), si fondono perfettamente in un unisono di alto valore anche “figurativo”, struggente e quasi trasognato, fra il sublime della  poesia e lo stridore violento del sesso consumato come in una frenesia furente. E il contrasto perfettamente esibito e “avvertito” che c’è fra la tragedia e l’innocenza, fra il “puro” e “l’impuro” (simbolicamente parlando) è una contrapposizione straziata e pregnante che da sola meriterebbe la “celebrazione” per acclamazione di colui che ha concepito con tanto rigore anche stilistico, questo opulento splendore di impareggiabile lirismo… Mi si dirà ovviamente che è solo un “piccolo frammento”, d’accordo, ma anche il resto (e mi fermo ancora alla suggestione visiva) ha momenti di alta intensità coinvolgente nella descrizione “oniricamente realistica” di quel “mondo alla rovescia” rappresentato da quell’eden del male in cima alla collina, dentro il quale si perdono e si dannano i due protagonisti (e anche noi ci troviamo all’improvviso catapultati nostro malgrado dentro quell’inferno, con una prepotenza inaudita che può persino spaventare, ed è forse proprio per questo che siamo tentati di darcela a gambe e di lasciare precipitosamente la sala vinti da quello che, non trovando termini più appropriati,  vorrei definire “semplice disgusto”). Si presta a multiformi interpretazioni questo Anticrhrist, né io so se  sono davvero “riuscito a penetrarlo”, a comprenderlo fino in fondo o a leggerlo nella giusta maniera, ma credo che nemmeno questo abbia poi particolare importanza (ci vorrebbero forse molti più “passaggi” per venirne a capo, una sola visione non è assolutamente sufficiente), poiché da qualunque parte la si prenda, la materia rimane “incandescente” e mette a nudo molti nervi scoperti dove (almeno per me) è stato facile riconoscersi e con i quali fare i conti, come ho già accennato sopra. E’ confermata la derivazione “nordica” delle ascendenze (ma più che di Bergman che pure è presente, parlerei questa volta dello Strindberg – inesauribile fonte di riferimento per tutta quella cinematografia –  e più esattamente quello pungente e crudele di “Danza di morte” e del “Pellicano”) con qualche accentuato riflesso dreyeriano tutt’altro che secondario che riverbera sempre. Potremmo dire allora (semplificando) che il film è una riflessione misogina sulla figura di una donna che non riesce a superare i propri sensi di colpa che si  scontra  (e si confronta) con tutto il “male” del mondo che la circonda,  fino ad essere inesorabilmente sommersa dalle sue negatività (ma su questo tornerò meglio più avanti). O potremmo invece ricercare assonanze tematiche con le leggende celtiche, o le storie di stregoneria medioevale, oltre che con  alcuni temi trasversali (lo scontro furente  dei sessi che diventa “lotta” accanita per la supremazia)  che emergono per esempio da pellicole come Luna nera di Malle.  Oppure, scegliendo un percorso più razionale e meno criptico,  trovare paralleli con le paranoie ossessive della alienata  protagonista di Images di Altman, ma avrebbe davvero poco senso fare tutti questi paragoni perché potrebbero persino farci correre il rischio di andare fuori strada. Io credo infatti che i molteplici piani di lettura consentano a ciascuno di lasciare alla propria sensibilità (o al vissuto personale) la scelta della chiave interpretativa che più  risulta essere in sintonia con la sua anima e il suo pensiero. Quello che però mi sembra evidente, è  come ancora una volta al centro del lavoro del regista ci sia il tema (e “l’analisi”) del caos…  un fattore  spesso ricorrente nei suoi “studi al massacro”, a partire dal non trascurabile L’elemento del crimine. Il risultato è in ogni caso uno dei più personali e  interiorizzati percorsi  di “palpabile angoscia” passati sullo schermo, che fa immediatamente comprendere come siamo davvero di fronte a un’opera fondamentale soprattutto per chi l’ha composta,  uno “scavo” scarnificante per tentare di contenere e risolvere un  fortissimo stato depressivo, come in un processo di “analitica” indagine conoscitiva: “Io faccio sempre lo stesso film, racconto le mie paranoie e fissazioni (come il sesso) che sono le stesse di quando ero un ragazzino: cambio solo la forma, il genere cinematografico, cambio anche le identità esterne dei personaggi. (…) Le mie opere dicono che l’uomo vuole essere stupido e che, riuscendoci, distrugge ogni cosa. (…) Mi ha sempre interessato il tema, il desiderio cattolico di controllare ed esorcizzare i propri demoni. In questo c’è un parallelo con la psicoanalisi. Io lo faccio col cinema: vi immetto i miei mostri e a quel punto dal dolore passo a un altro tipo di sensazione. Nei film i demoni diventano i miei amici, i miei compagni di gioco. In “Antichrist” lo stesso discorso si può fare per le paure, quelle di una donna quando le nasce un bambino, per il fatto che la maternità entra in contrasto con il rapporto di coppia. Dalla mia esperienza, anche se non si mettono le scarpe al contrario al figlio, so di donne che vanno in difficoltà, cambiano la percezione di sé all’interno dei ruoli affettivi/familiari/sociali. Entra in crisi il rapporto sessuale col compagno/padre: il sesso diventa frustrante, e questo anche per il partner. (…) Il film è stata anche una mia terapia. Non saprei perché, ma scriverlo mi ha sbloccato e realizzarlo mi ha fatto  sentire molto meglio. Non chiedetemi il motivo, cosa sono riuscito a mettere della mai depressione nel film e come mai  questo mi abbia aiutato ad uscirne, ma è così.”Antichrist” mi ha guarito, e per questo lo ringrazio e lo apprezzo molto”.  Sono dichiarazioni “importanti” rilasciate da Von Trier durante un’intervista, e “dobbiamo” credergli davvero sulla parola, perché io trovo una comparazione diretta fra quello che ha teorizzato, e ciò che  ho riscontrato sullo schermo (nonostante che poi io, con il mio “personale vissuto”, sia stato portato a spingermi in territori di tutt’altra natura). Certo che ci sono anche le scioccanti scene sulle quali si è prioritariamente concentrata l’attenzione (succede sempre così), ma che non arrivano “freddamente esasperate” fra capo e collo come un orpello aggiuntivo: diventano bensì  l’approdo inevitabile di un andamento analogamente perturbante, che raggiunge il suo apice nella  recitazione di altissima, estrema  intensità  (la disperata emotività  che espone in primo piano i sofferenti movimenti dell’anima) di una Gainsbourg sempre “tesa” come una corda di violino a un passo dallo spezzarsi, una “veemenza” anche violenta  e “impudica” la sua, che fa persino più male di quelle randellate al pene o della mutilazione estrema a cui si sottopone con disperato furore nella scena più traumatizzante e “insostenibile” allo sguardo.
“L’edificio del film è chiuso”  (un critico, se non ricordo male, si è proprio espresso così , e penso che non si possa dargli torto, poiché il rigore delle scelte fa sì che tutto nasca e si concluda in se stesso) “le doglie della coppia partoriscono la paranoia, esorcizzata dalla rappresentazione del dramma in cui lo slittamento di senso passa dalla sessualità intesa come colpa, alla colpa vissuta come sessualità” (se “fare all’amore”, o meglio “scopare” - perché qui è proprio in questi termini che si parla ... -  se tale atto viene compiuto mentre il figlio muore, e nella maniera più tragica e inaspettata,  diventa allora la causa - l’origine - di una palese omissione, di una disattenzione, e tutto diventa di conseguenza più terribilmente “distruttivo” di quanto per esempio si era potuto osservare nell’incipit di un film come A Venezia un dicembre rosso shocking,  che era poi inevitabilmente “tutta un’altra cosa”)… Io so (credo almeno di saperlo) “di cosa si parla”. Sento sulla mia pelle il “peso” e la condanna responsabile… quella dei dilanianti sensi di colpa che invocano la sanzione… o ancor peggio,  quello del sesso “masochisticamente” castrante nella sua brutalità così lontana dal piacere, utilizzato e vissuto come strumento “punitivo” per umiliarsi e pagare nella sofferenza … C’è allora anche una identificazione viscerale con le labirintiche esplorazioni mentali di quella specie di lucida follia, che  mi aiuta (questa volta)  a proseguire uniti il viaggio (… io, la donna e l’uomo che l’accompagna) dentro questa sconvolgente storia divisa tra dolore, espiazione e (forse) possessione (ma non ne sarei poi così sicuro) che è prima di tutto un’analisi impietosa sugli scompensi (psicologici o spirituali che dir si voglia) che scaturiscono da una “assenza” di amore, aggravata poi  dal senso opprimente della colpa che può portare davvero sull’orlo della follia. Più che una indagine sulle origini del male allora non può essere forse interpretato proprio così questo “martirio fisico” compensativo, che subentra e progredisce fino al parossismo, via via che  aumenta la consapevolezza  (la presa in carico) di  ciò che è accaduto  e con questa la comprensione dello stretto rapporto che esiste sempre fra “causa” ed “effetto” che non può mai liberarci dalle nostre responsabilità oggettive? Lei infatti (la donna è sempre la parte più “consapevole” e problematica) deve sopportare il peso della morte del figlio avvenuta proprio durante un atto d’amore carnale. Ed è appunto la carne della donna la prima ad essere martoriata, nel momento in cui lei si rende conto che il sesso non ha più nessuna funzione (liberatoria, di piacere) ma è ormai la semplice reiterazione rabbiosa di un atto che riporta in superficie il “trauma” della perdita e ciò che ne consegue. Le immagini (ottima la fotografia di Dod Mantle Shore sono di straordinaria pregnanza (quella vegetazione spesso mossa dal vento, quei colori quasi smunti fra l’ocra e il verde marcio, mi hanno ricordato la “versione in immagini” che Von Trier ci ha dato della sceneggiatura dreyeriana di “Medea” che altrimenti sarebbe rimasta “incompiuta”, o meglio “inutilizzata”)  con invenzioni visive quasi surreali nella loro composizione “immaginifica”, capaci  comunque di trasmettere un vero, profondo senso di inquietudine soprattutto nella parte conclusiva, quando l’uomo, il superstite, “ridiscende la china”  e ormai solitario (e vincente?) ritorna sui suoi passi, ma viene improvvisamente “sfiorato”, superato da tutte quelle presenze che lo incrociano con le loro facce invisibili, e (ri) popolano, quasi “moltiplicandosi” all’infinito, di nuovi incubi lo schermo e l’inconscio, o quello che ci viene rappresentato e raccontato di una Natura matrigna , “inospitale” e ostile, con i suoi boschi blasfemi e gli anfratti nascosti densi di insidie e di suggestioni malefiche, dove la morte e la sopraffazione violenta diventano gli elementi predominanti di una ritualizzazione quasi “orgiastica”, di nuovo inscindibili cardini dell’esistenza umana, come lo è il dolore che domina il mondo, o la morte che governa la nostra vita, la occupa e la “usurpa”. Ma è davvero “misoginia” quella del regista o è invece alla donna che fa assumere nuovamente il ruolo di vittima sacrificale quasi che appartenesse ancora a quella rinnovata genia (malvagia) definita come “stirpe delle streghe”? Non a caso Von Trier gli  contrappone il “maschio”,  al tempo stesso marito e psicoterapeuta… e se apparentemente il cerimoniale è centralizzato su di lei, chi ci  assicura che non sia invece proprio l’uomo quello che deve essere esorcizzato? Potrebbe essere lui, no? il male, l’Anticristo del titolo. “La dolce e comprensiva razionalità che oppone questo marito psicologo all’irrazionale paura e al dolore della moglie è la traccia di una purificazione che, se non usa  il fuoco del rogo, adotta inequivocabilmente l’amore come strumento di tortura. Ma se invece questo è un film sull’Anticristo che è l’uomo, allora si determina come la raffigurazione di un universo in cerca dell’opposto, sospinto verso la liberazione dall’ordine logico e l’immersione nella sensualità istintiva della natura.  E di conseguenza, la furia selvaggia che oppone questa donna/strega al raziocinio del suo uomo, può essere interpretata come il segno di una ribellione che adotta l’odio e la violenza quale  performance operativa di una “stregoneria” che libera. Questa è una delle tesi di Massimo Causo su “Duellanti” e rappresenta davvero un intrigante interrogativo, un rompicapo difficile da risolvere, a cui poter dare davvero una risposta.
Io al riguardo non ho ancora certezze, ed è forse per questo che  ho voluto semmai disseminare il discorso di “dubbi”, provocazioni, ondivaghe riflessioni capaci di sottolineare soprattutto la difficile (ir)razionalità dell’opera e la conseguente necessità di un approfondito lavoro introspettivo tutt’altro che facile e men che meno univoco, per attraversarla davvero tutta e comprenderla “fino in fondo”… una specie di “sfida” cosciente (anche a me stesso) dunque per riaprire il dibattito inserendoci nuovo materiale che entra “specificatamente” nel merito,  sia pure ancora una volta incapace di fornire definitive risposte, poiché “comunque vada” (la valutazione della “qualità” intendo), tutto si può dire,  ma non prima di aver fatto una riflessione cosciente sulla complessità delle tematiche  che compongono il tessuto del film: in questo senso (e stavolta più che mai) non è  davvero possibile (credo) “inchiodare” il giudizio a un solo vocabolo: “cagata”  o “capolavoro” a seconda dei punti di vista, perché  credo davvero che avrebbe veramente poco senso l’una o l’altra definizione, lascerebbe in bocca un senso di amara incompletezza in mancanza di ulteriori parole esaustive che chiariscano e definiscano il concetto… lo conferma il fatto che nemmeno io, nonostante questo interminabile “sproloquio” sono adesso in grado di  “sintetizzare”  un voto in stellette (lo definisco in quattro perchè senza sembra non voler accettare il commento, ma "reivsionabile"9, dibattuto come sono fra il “diniego” scioccato e la “fascinazione”: ho bisogno evidentemente di far lievitare ulteriormente il magma che scorre sotterraneo,  e soprattutto di rivederlo (credo anche più volte) questo film, per riconciliarmi finalmente anche con me stesso ed essere scevro da suggestioni troppo “intime” che a volte deviano. Attendo per questo proprio la “disponibilità” del dvd per poterlo nuovamente passare a piacimento dentro la moviola della mia coscienza e giudicarlo davvero in maniera “definitiva” e (per me) incontrovertibile. Ah, dimenticavo: non solo la Gainsbourg è superlativa: anche William Dafoe, in un personaggio più sfumato, ma di analogo spessore “enigmatico”, è bravissimo a compenetrarsi dentro al gioco al massacro organizzato dal regista.  

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