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Fortapàsc

Regia di Marco Risi vedi scheda film

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La recensione su Fortapàsc

di mc 5
8 stelle

L'ultima frase che si legge in fondo ai titoli di coda la vorrei usare come premessa, per stimolare una riflessione che -e di questo mi scuso- col film in sè c'entra poco. "A mio padre Dino", questa la frase. Riflettiamo su questo tributo d'affetto nei confronti di uno dei più grandi Maestri del cinema italiano. Un tributo che consiste in un ottimo film, soprattutto sincero e "sentito". Dove voglio andare a parare? Semplice. Marco Risi rende omaggio al padre confezionando un film che trasuda onestà intellettuale. In queste stesse ore arriva nelle sale un altro omaggio a Dino Risi e specificatamente ad uno dei suoi capolavori, "I Mostri". Mi riferisco evidentemente a "I Mostri oggi", film che vorrebbe riproporre le critiche che allora, nel 1963, Risi mosse alla società italiana, rivedute ed aggiornate. Dunque abbiamo due modi contrapposti di tributare onori e stima al Maestro. Uno sincero e palpitante, un altro sciocco, furbo, manipolatore, privo di creatività, sostituita quest'ultima da un tapis roulant di volti popolarissimi che però non graffiano e dicono molto poco. Oggi, visto che possiamo affermare che i Tognazzi e i Gassman non hanno trovato nessun degno erede o sostituto, i loro figli (o chiunque altro) possono rendere omaggio a quei padri solo realizzando film sinceri e di alta qualità. Come ha fatto Marco Risi, appunto. Premesso che il film non è un capolavoro e che possiede diversi lati criticabili, si segue però con passione e sufficiente coinvolgimento. C'è qualche spiritoso che ha parlato di "Gomorrina", forse suggestionato dalla presenza di tre attori in comune col celeberrimo lavoro di Garrone. Beh, il tema è lo stesso, la gente di camorra, il loro modo di gestire il potere, le lotte sanguinose tra faide, e dall'altra parte le persone oneste che si battono per dare dignità ad una popolazione sempre più sottomessa al sistema sociale della camorra. E di "sistema" si tratta, dato che purtroppo (e in "Gomorra" questo aspetto era parecchio evidenziato) ciò che primariamente ha contribuito alla diffusione del fenomeno camorristico fra la "povera gente" è stato proprio l'atteggiamento alla "Robin Hood", vale a dire la camorra che si presenta come "raddrizzatrice di torti", come riequilibratrice di una giustizia sociale che lo Stato non può più garantire. Ecco dunque perchè quando reparti di carabinieri e polizia entrano in certi quartieri del sud, ci sono interi rioni che insorgono lanciandogli contro di tutto: quelle persone si sentono vittime di uno stato ingiusto ed hanno affidato ogni speranza di riscatto e di giustizia ad un "sistema" di criminali e assassini. C'è poco di che turbarsene, è chiaro che è una realtà perversa, ma di fatto le cose stanno così. Ed ecco che però, in un contesto sociale così drammaticamente "malato", si materializzano persone che, in solitudine, come schegge impazzite, decidono che "non ci vogliono stare" e, nel loro quotidiano, fanno quel che possono.E un giornalista, partendo da ciò che i suoi occhi vedono, e che viene fedelmente riportato sul classico taccuino, può fare tanto. Giancarlo Siani, giovane precario alla cronaca locale del "Mattino", redazione di Torre Annunziata, assiste ad un campionario di scorrettezze, ribalderie, soprusi ed intrighi, che non possono essere taciuti. Giancarlo è tutt'altro che un eroe, anzi è un ragazzino pieno di dubbi, ma non si capacita di essere circondato da gente che -di fronte ad un simile scempio sociale- non fa che "abbozzare". Il film non fa che riportare quello che realmente era in quegli anni l'andazzo politico ed il clima sociale di Torre Annunziata, per cui si apprende che il solo uomo della legge consapevole di quella drammatica realtà era un capitano dei carabinieri. Tutti gli altri, come dicevo, "abbozzano", anche se lo fanno a diversi livelli. Ad esempio il sindaco (socialista!!!..mi scappa da ridere) -un superlativo Ennio Fantastichini- che è colluso mani e piedi con la camorra. Poi abbiamo un pretore (interpretato da un efficacissimo Gianfelice Imparato) che sa tutto, vede tutto il marcio dilagante, ma siccome ha paura si muove coi piedi di piombo, anzi spesso neppure si muove: quest'uomo di legge che ha scelto, facendo un giuramento, di servire lo stato come magistrato, anzichè fare il proprio dovere, chiude gli occhi e, trincerandosi dietro una percezione di impotenza, permette di fatto che la camorra faccia il proprio cammino. Egli non è colluso ma la sua colpa per ciò che accade non è per questo meno grave, perchè un magistrato non può nascondersi dietro i "vorrei ma non posso". E poi ci sono i personaggi come il direttore della cronaca locale di Torre Annunziata (un ineccepibile -come sempre- Ernesto Mahieux) che ben rappresenta tanti cittadini napoletani, nel senso che è consapevole del marcio che lo circonda, ma preferisce pensare che "non sono cazzi suoi", e infatti non fa che rimproverare il cronista Siani di non volersi fare -appunto- "i cazzi propri". E' solo uno dei tanti che hanno scelto di "abbozzare", colpa peraltro amplificata a dismisura quando si tratta di un giornalista. La cosa che colpisce di più lo spettatore (specie quello settentrionale, come il sottoscritto) sono le numerose scene degli incontri fra camorristi, coi loro ridicoli rituali, le loro scelte estetiche, le loro stesse posture, tutti dettagli che rendono quei personaggi delle apparenti caricature satiriche. Eppure certi atteggiamenti da "signorotto locale", accompagnati peraltro dalle solite, estenuanti e insopportabili colonne sonore neomelodiche, tutto ciò insomma fa parte di un mondo che sopravvive a sè stesso, ossessivamente ripetitivo nel riproporre una ritualità arcaica, tutta giocata su concetti quali onore, punizione, vendetta, comando. Insomma, il tribale che sopravvive e prospera nell'era della tecnologia: quasi un incubo che non ci si crede. I fatti narrati nel film ripercorrono fedelmente la triste (ma non inutile!) vicenda del sacrificio umano di Siani. Un sacrificio a cui sarebbe bene ripensare, ogni tanto. Per esempio, quando ci capita di leggere sul "Foglio" un pezzo inqualificabile in cui una giornalista (è una parola grossa, mi rendo conto) invita Roberto Saviano ad uscire più spesso con le ragazze e ad essere meno ossessionato (traduzione: scopare di più e farsi meno pippe mentali...). Certo, in democrazia chiunque può dire qualunque cosa, ma a me sembra un gran brutto segno dei tempi che un uomo come Saviano (che alla denuncia contro la criminalità ha sacrificato praticamente tutto, dalle libertà personali agli affetti) venga continuamente fatto oggetto di insulti, dileggiamenti, ammiccamenti vari, se non addirittura querele. Proprio poche sere fa in tv, lo stesso Saviano, ci ha mostrato, documenti alla mano, come i titoli di certi giornali locali, inquadravano la scena camorristica. Giornali che diventano "complici" (idealmente, chiaro) della camorra, quasi fornendole una sponda informativa di credibilità, per esempio (è importante!!) sputtanando sistematicamente i pentiti oppure rafforzando, attraverso ridicoli dettagli iconografici, il mito di certi boss locali. Ma dai tempi di Siani (sono passati ormai 25 anni) cosa è cambiato nella stampa, rispetto alla camorra? Sì, ci sono i testimoni coraggiosi e autorevoli, come Attilio Bolzoni ((Repubblica) e Saverio Lodato (L'Unità), ma resistono numerosi anche coloro che abbozzano, che ammiccano, e non necessariamente per complicità, anche solo per banale "quieto vivere", semplicemente hanno scelto di farsi i cazzi propri o -come viene detto nel film- di fare i "giornalisti-impiegati". Detto ciò, veniamo al cast. E, naturalmente, al regista. Quel Marco Risi che stavolta ha portato a casa un bel risultato, anche se la sua carriera resta costellata di alti e bassi e nel cui ambito mi piace segnalare il titolo assolutamente cult "L'ultimo capodanno", sorta di pellicola "ufo" che qualcuno sta già pensando di rivalutare. Ho già detto tutto il bene possibile (che ribadisco) di Mahieux, Fantastichini, Imparato, tutti al loro meglio. Resta da dire di Valentina Lodovini, sulla quale non posso essere imparziale: sarà (anzi lo è) anche brava, ma soprattutto è bella da morire, troppo bella, da perderci la testa. E, a sorpresa, proprio in chiusura, un colpo di scena (si fa per dire) nell'ambito del mio giudizio su questo film. Mi duole confessarlo, ma il protagonista Libero De Rienzo non mi è mai piaciuto granchè. Bravo, per carità, e qui ce la mette davvero tutta, ma io non l'ho mai digerito molto. Il suo stile espressivo è penalizzato da una voce che sta a metà fra topogigio e un paperotto...e poi c'è un'altra cosa. De Rienzo acquisì una discreta popolarità circa una decina d'anni fa attraverso uno spot televisivo di una nota marca di pasta. Da allora (è più forte di me!) non posso fare a meno, ogni volta che ne vedo l'immagine, di visualizzare quel ragazzotto che mangiava gli spaghetti. Riassumendo. Il film non è un capolavoro, ma la passione civile e la sincera onestà che ne trapelano, ne consigliano ampiamente la visione.
PS: questo stesso weekend, questo bel film fa da contrappeso ad altre due pellicole italiane
decisamente sconfortanti ed ignobili (stavolta non faccio nomi, ciascuno può verificare da sè): il cinema italiano naviga ancora a vista.
Voto: 8

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