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The Tree of Life

Regia di Terrence Malick vedi scheda film

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La recensione su The Tree of Life

di lussemburgo
6 stelle

L’ultimo film di Malick si vuole intensamente sinfonia per immagini, non solo sulla vita ma anche sui suoi sconfinamenti, sull’origine e oltre il termine, coinvolgendo l’uomo e la relatività di ogni esistenza terrena nel macrocosmo dell’infinito, tracciando segnali di prossimità tra l’immensamente grande e la piccolezza dell’umanità.

Cinema prepotentemente impressionistico, The Tree of Life è costruito in massima parte da fotografie animate, tableaux vivants che fanno avanzare per blocchi di silenzio e di densità emozionale la narrazione residua all’interno della dinamica di contrasti e di concordie celesti, un condensato di sensazioni e di suggestioni a cui, per una volta, avrebbe giovato la tridimensionalità per l’esibita volontà - e necessità - di coinvolgimento dello spettatore.

Poca trama permane nel racconto della vita che si esemplifica per momenti di emersione di intensità, accompagnati, ove possibile, dal flusso dei pensieri del protagonista umano o, in sua assenza, guidati dal solo e silente punto di vista divino. Perché è la vita che anima una corrente incessante di immagini che, dall’umano, deviano verso l’inimmaginabile, dal Big Bang arrivano all’oltretomba, si propongono di vedere nascere e finire nel silenzio la pura materia dopo il breve intervallo della coscienza umana e della sua peculiare possibilità di trasformare l’universo in parole -e in inquadrature. La sola coscienza, infatti, contraddistingue la presenza umana nel vasto creato, ma si perde mentre la materia si ricicla e passa nel tempo sospeso dal suo computo.

La visone breve ed esitante di un proprio posto nell’universo non permette all’uomo la serenità dell’impermeabilità ai sentimenti negativi verso i suoi simili che lo distrae dall’assenza di senso per condurlo nei meandri dei dissidi di affetti distonici in cui, troppo spesso, la poca vita residua ristagna. Contrastato e assecondato, l’amore in molteplici incarnazioni (fraterno, filiale, materno…) impregna il film nella sua parte migliore e più tangibile, fatta di piccole tracce di realtà domestica, banale quanto sincera, animata da poche parole e da molti sguardi, agitata dai tanti gesti inutili e affettuosi.

Senza un fulcro concreto o un reale protagonista, spostato negli anni tra il passato dell’infanzia e il futuro sospeso nell’incertezza della premorte (sino all’evidenza del trapasso), il film cancella la filigrana narrativa con ambiziose superfetazioni. Lo spettatore viene così trascinato all’interno di un curioso bignami evoluzionista, si smarrisce nella cronistoria della Terra mentre il pretesto concreto si sfilaccia nella elucubrazione dell’infinito futuro, sin dopo la trasformazione del Sole in supernova e la restituzione di tutta la cenere alla polvere stellare.

Lampi di vita vera squarciano l’ammasso di volute ipertrofiche, di vertigini iperboliche che colorano il film di infinito e silenziano la bellezza nell’eloquenza dell’enfasi. Tra pianeti al collasso, soli in espansione, DNA in evoluzione, animali in movimento riempiono spesso lo schermo e spaziano verso l’indecifrabile e l’infinito, ricollegano gli affetti minuti alle cosmogonie accertate che male celano l’anelito di fede, l’immanenza di una prospettiva divina dolorosamente sfuggente. E le immagini tentano di immortalare l’incommensurabile anche all’interno di sguardi rapiti, delle pose mistiche del ritratto materno, dei cieli incorniciati dagli alberi e degli sguardi trafitti da raggi di luce, mentre intorno si fa presto sera.

Così come i pochi protagonisti, anche il film si perde, semina gli spettatori accecandoli con la bellezza, travolgendoli con flussi di parole e di idee, cercando di dare concretezza alle astrazioni per trasformarle in immagini destinate, inesorabilmente, all’oblio, metafisico e meta filmico. Nella continua ricerca della purezza dell’emozione il film, infatti, costruisce e racconta il suo fallimento, la discontinuità di quel coinvolgimento imperativo necessario al trascinamento lisergico che la pellicola postula.

Pieno di bontà o della sua aspirazione, il film di Malick palesa l’inutilità dell’astio e, infine, della vita stessa che si spegne in scenari più ampi e imperscrutabili i quali, tortuosamente, rimandano sempre al divino. The Tree of Life si smarrisce per eccesso di generosità di un Autore che, modestamente, cerca il sublime, sublimando però soltanto la forma-film nella docu-fiction allegorica con inserti di libera associazione impressionistica, da cui si esce irretiti o irritati.

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