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Alice in Wonderland

Regia di Tim Burton vedi scheda film

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Raffaele92

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La recensione su Alice in Wonderland

di Raffaele92
5 stelle

Ci sono alcuni registi che, dopo una carriera illuminata, attraversano un irreversibile declino (oltre a Tim Burton, mi permetto di citare – e senza timore alcuno – anche Ridley Scott). Altri che, pur non avendo mai smesso di brillare, con le loro ultime pellicole sono addirittura “rinati” (faccio esplicito riferimento a William Friedkin per “Killer Joe” e Martin Scorsese per “The Wolf of Wall Street”). Come accennato poc’anzi, Tim Burton fa parte della prima categoria. Penso non ci sia ormai più bisogno di citare i capolavori che ha sfornato ininterrottamente da Beetlejuice a Sweeney Todd (mi permetto di considerare questo come il suo ultimo film davvero memorabile, ma è un opinione assolutamente personale). Poi qualcosa di strano è accaduto: sembra che negli ultimi anni abbia piegato la sua creatività e il suo genio alle esigenze puramente commerciali dei milioni di giovanissimi fan che, involontariamente e inconsapevolmente, lo hanno piegato a stereotipo di autore di innocue pellicole di genere fantasy (nella deviazione più puerile e risibile del suddetto genere) virato al dark. Tim Burton è stato invece molto di più: creatore di mondi oscuri, narratore di fiabe nere e strazianti storie d’amore, nonché cantautore di ballate macabre. Un autore con la “A” maiuscola, tanto per intenderci. “Alice in Wonderland” è la perfetta dimostrazione di come quest’immaginario sia diventato sterile e superficiale, fatto esclusivamente di effetti speciali a iosa che incantano di certo gli occhi ma non sfiorano minimamente il cuore e l’anima. Considerato il repertorio immaginifico del regista e i temi a lui cari, era più che lecito aspettarsi che un live action sul libro di Lewis Carroll (che sembrerebbe quasi scritto apposta per il cineasta) potesse diventare il suo capolavoro. E invece no. Tanto fumo e niente arrosto. Film costosissimo dagli incassi strepitosi, resta un prodotto fatto di mera scena, scenografie coloratissime, e debiti inespugnabili verso il capolavoro della Disney più che dal libro. Quel poco di buono che c’è viene tutto dal film del 1952. Si lascia guardare fino alla fine e in certi momenti incanta lo sguardo, ma è una pellicola commercialotta “vietata ai maggiori di 16 anni”. Chi a film terminato avesse ancora dubbi su questo, rimanga pure ad ascoltare Avril Lavigne sui titoli di coda. Ciò non può che confermare quanto appena detto. Abbandonato (giustamente) dalla critica, Tim Burton sta incontrando sempre più i favori di un target al quale egli stesso ha erroneamente e irrimediabilmente scelto di rivolgersi, abbandonando tutto ciò che c’era (in un passato recente eppure così lontano) di provocatorio e audace e lungimirante nelle sue storie. Di primo acchito potremmo incolpare la Disney (che nell’ultimo decennio è diventata la più grande terrorista cinematografica, se mi si lascia passare questo termine) della scarsa riuscita del film e della sua determinante influenza sull’esito complessivo dell’operazione. Ma scartiamo subito tale ipotesi, giacché guardando ai film successivi del cineasta ci rendiamo conto che questo “Alice in Wonderland” è per la stragrande maggioranza farina del suo sacco. Senza contare poi che Sam Raimi, sempre sotto(messo) (dal)la Disney, è riuscito a fare molto meglio col suo “Il Grande e Potente Oz”, che si avvicina pericolosamente al film in analisi ma mantiene comunque alto il nome del suo regista. Quando si gioca la stessa partita sullo stesso campo, i paragoni non solo vanno fatti ma contano anche molto. In definitiva “Alice in Wonderland” non è propriamente brutto. Anzi, se non fosse di Tm Burton sarebbe quasi un bel film. Si lascia guardare ma non esalta né soddisfa pienamente. Di rado incanta ma non stupisce mai. Diverte poco e commuove ancora meno. È come una caramella troppo zuccherata: un brevissimo piacere fugace che in pochi secondi sparisce nel nulla senza lasciare traccia. E Johnny Depp? Il triste consolidamento di un ruolo (quello grottesco e stravagante del quale l’attore è irrimediabilmente diventato stereotipo) dal quale non è ancora riuscito a “staccarsi”. Ergo, un tassello in più all’autodistruzione di una carriera.

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