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Il lungo addio

Regia di Robert Altman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il lungo addio

di rocky85
10 stelle

E’ notte a Los Angeles. Marlowe (Elliott Gould) viene svegliato dal gatto affamato che reclama il suo mangime preferito, “marca Curry”. Le scorte in casa però sono finite ed il gatto non ne vuole proprio sapere di mangiarne di diverso. Così Marlowe si rimette la cravatta sulla camicia sgualcita e va in un vicino supermarket, purtroppo invano perché anche lì hanno finito le scatole Curry. “Perché non ne prende un altro?” gli suggerisce il giovane commesso. “Si vede che lei non ha un gatto” risponde Marlowe. “E che me ne faccio del gatto? Ho la ragazza!”. Marlowe se ne torna a casa con uno stratagemma: mette il mangime appena acquistato in una scatola vuota Curry, sperando di beffare il suo gatto. Ma questo capisce subito il trucco e se ne va sdegnato. “Non era un prodotto Curry... “ constata amaramente Marlowe. “È ok per me!”

Il geniale incipit de Il lungo addio è già una dichiarazione di intenti. L’ultimo romanzo scritto da Raymond Chandler nel 1953, già di per sé cinico e disilluso, viene affidato dalla United Artists alla regia del giovane Robert Altman. Reduce dall’esperimento di revisitazione e destrutturazione del western effettuato per I compari, Altman prosegue il suo intento affrontando stavolta il noir, svuotandolo dei suoi elementi tipici per adattarlo al senso di spaesamento che si vive negli Stati Uniti negli anni Settanta. Così, in accordo con la sceneggiatrice Leigh Brackett (già autrice del copione “chandleriano” de Il grande sonno), trasferisce la vicenda nell’America contemporanea, con tutte le conseguenze che ne comportano. Il protagonista, inoltre, diventa un investigatore privato completamente diverso da quanto vuole la tradizione: sigaretta costantemente pendente dalle labbra, sorriso sornione ed ironico, comportamento strafottente e ribelle contro le autorità (quando è arrestato e interrogato dalla polizia, si tinge il viso di nero e sfida ironicamente i suoi interlocutori). Merito anche della straordinaria performance di Elliott Gould, voluto a tutti i costi da Altman (che lo aveva già diretto in M.A.S.H.) contro il volere di una produzione impaurita dalla cattiva fama di attaccabrighe dell’attore.

Raccontare Il lungo addio non è facile e può trasformarsi in un inutile utilizzo di parole. Ogni sequenza è realizzata secondo un preciso scopo, e contiene una varietà di significati e di metafore che lo stesso regista a volte lascia alla libera interpretazione dello spettatore. Un noir che procede in modo irregolare, bizzarro, libero e svagato come il suo protagonista, lentissimo e senza apparente collegamento tra gli eventi narrati. Altman utilizza zoom insistiti sui volti dei personaggi, restringe l’inquadratura intorno a loro eliminando del tutto i campi larghi (ad eccezione del finale) e ricorre spesso a voci o suoni fuoricampo. L’incredibile e virtuosistica fotografica del fedele collaboratore Vilmos Zsigmond alterna i toni scuri e cupi della notte al colore manipolato e riflesso delle luci del giorno (guardare per credere la magnifica sequenza della chiacchierata in spiaggia quando, nella stessa inquadratura, la luce del sole si riflette nel vetro della villa dello scrittore). Queste, che sono sono alcune delle peculiarità stilistiche del regista, contribuiscono in modo indelebile a rappresentare una tensione sempre latente, che si rispecchia “nei” personaggi e nei loro stati d’animo, nello spaesamento che essi provano. L’ironia ed il grottesco non fanno altro che incrementare quella sottile inquietudine che nasce dall’interno e si protrae in un racconto che è pessimista e radicale. È lo stesso Altman ad affermarlo: “Penso che Marlowe sia morto. Penso che sia un addio a quel genere, un genere che non credo possa essere più accettabile. C’è inoltre tutta una lunga serie di addii personali: al fare un film a Hollywood e su Hollywood e su quel tipo di film”. Dunque Il lungo addio diventa il canto funebre di un genere e di un certo modo di fare cinema. Ed un’amara riflessione sulla marcia e putrida società statunitense. L’alcolizzato scrittore Roger Wade (Sterling Hayden) e la sua ambigua consorte (Nina Van Pallandt), il gangster violento e surreale Marty Augustine (Mark Rydell), personaggio inventato dallo stesso Altman e dalla sceneggiatrice, fino ad arrivare all’amico di infanzia di Marlowe Terry Lennox, svelano tutto il marciume di una società balorda e ingrata, pronta a compiere gesti di inaudita ferocia o insensatezza nella loro incredibile mente malsana. Marlowe si muove intorno a loro incredulo, estraneo, ingenuamente fanciullesco ed eternamente perdente. The Long Goodbye è anche un addio all’amicizia: no, non c’è posto nemmeno per quella. Ed Altman ce lo mostra in un finale che rappresenta l’ennesimo colpo di coda che contravviene alle regole del genere ed all’originario volere dello stesso Chandler. Eppure la scelta finale di Marlowe risulta coerentissima con la carica eversiva che accompagna tutto il film. “Sei un perdente nato, Marlowe” gli dice sprezzante l’amico di un tempo. “E ho anche perso il mio gatto!” ribatte lui.

 

 “Nulla dice addio come una pallottola”.

 

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