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La lunga notte del '43

Regia di Florestano Vancini vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La lunga notte del '43

di spopola
8 stelle

La morale di questo ottimo film indica il segno di una discutibilissima “parità” fra gli orrori fascisti e i conformismi postbellici, in un finale che fa risvegliare un forte ed indignato risentimento non soltanto di natura etica, che è anche un implicito invito alla ribellione.

Florestanto Vancini era stato aiuto regista di Zurlini per il suo quasi contemporaneo Estate violenta.
Non stupisce dunque che anche per il proprio debutto sul grande schermo, si sia ispirato a sua volta ai fatti della resistenza, che erano tematiche ancora “calde” e sentite, e soprattutto retaggio di esperienze dirette di vita vissuta, prendendo però spunto da una delle Storie ferraresi di Bassani, e più esattamente dal racconto Una notte del ‘43.
Premiata a Venezia come migliore “opera prima”, la pellicola ha davvero ottime credenziali che le consentono di reggere benissimo l’usura del tempo: densa e significativa nei contenuti, sia pure con qualche piccolo  squilibrio nel suo andamento generale per evidente “eccesso di cuore” e di inesperienza (comunque dei piccolissimi nei facilmente perdonabili), con  la sua fortissima carica polemica e la particolare “ottica” del racconto, ci costringe - oggi più che mai - a una spietata riflessione critica che non ci può certo far restare indifferenti, a conferma del giusto interesse che fu riservato a Vancini, salutato, grazie a questo film,  come uno dei più interessanti e quotati registi esordienti del periodo.
Certamente un ambizioso progetto il suo, che in tempi ancora fortemente “celebrativi”come quelli in cui fu pensato e realizzato, proprio per la particolare scelta tematica  che si può sintetizzare in una rammaricata “sfiducia del presente” contrapposta all’impegno  appassionato di un  “esaltante passato antifascista” che avrebbe dovuto far immaginare ben più concreti sviluppi di tenuta e di coerenza di quanto non sia poi davvero accaduto nella realtà, gli ha permesso di inserirsi di prepotenza in un filone di coraggiose opere (se non proprio in controtendenza, per lo meno capaci di lasciare da parte la “retorica” dell’eroismo a tutti i costi) che in quel periodo tentarono di affrontare in maniera più problematica proprio gli anni della disfatta e delle inevitabili “scelte”, fra lutti, lacerazioni e riflessioni consapevoli  (oltre al già citato Estate violenta,  anche Un giorno da leoni  di Loy, Tiro al piccione di Montaldo, Il carro armato dell’8 settembre di Gianni Puccini e Tutti a casa di Comencini, fra tutti forse il risultato più compiuto).
Nel riprendere in pratica una data “fatidica” come quella dell’8 settembre e situare così l’epoca “centrale” del suo film a cavallo dell’”adunata di Verona” e della restaurazione del fascismo,  Vancini (e qui forse il parallelo più appropriato è proprio con Zurlini), non si lascia fortunatamente fuorviare (e limitare) da un legame troppo stretto (e scomodo) tra vicenda privata, destini individuali e tempo storico, e riesce invece, pur con qualche disomogeneità quasi inevitabile in un’opera prima, a dominare pienamente la materia e i tanti personaggi che la popolano, per formici un attendibile e suggestivo affresco sui sentimenti e le incertezze, con in più (ed è un merito non secondario), il coraggio di andare  un po’ oltre i fatti meramente documentati legati a un evento cruento, per travalicare i drammatici avvenimenti che ha appena rappresentato e “raccontarci” anche e soprattutto,  con una sorta di stupefatta, dolorosa amarezza tutt’altro che rassegnata, “il dopo”,  corrispondente agli “incredibili” (e non certamente in senso positivo) anni della riappacificazione (in)consapevole o fortemente “opportunista”, per non dire di peggio, che seguirono quelli dell’esaltazione gioiosa della vittoria raggiunta, dopo il terrore e la disperazione delle rappresaglie (non tutto il “sangue dei vinti” fu evidentemente versato per compensare i lutti ed i soprusi,  o forse ne fu versato troppo poco – e scusate se mi ripeto visto che ogni tanto ritorno a “pigiare” su questo tasto dolente – tenendo conto che molti dei più feroci lestofanti del regime, riuscirono a farla franca e a ricollocarsi senza troppi danni o condizionamenti, come anche il buon Pansa – se fosse davvero onesto ed oggettivo - dovrebbe ben sapere per avere vissuto le cose “in  presa diretta”). Vancini ci fa infatti toccare  con mano il disinvolto, “indolore” reinserimento nel tessuto sociale del paese già  a pochissima distanza dalla fine della guerra, nonostante le violenze e gli eccidi, quasi che “niente fosse davvero accaduto”, quel “rifarsi una verginità” insomma, di uno dei tanti gerarchi macchiatisi di inenarrabili infamie, resa possibile anche dalla complice “indifferenza” dei superstiti o dei discendenti delle vittime, e quel passaggio repentino agli anni corrispondenti  al girato – il 1960 – che è uno dei momenti più coinvolgenti e disturbanti di tutta la pellicola - anche per quello che poi ci   farà vedere nelle scene immediatamente successive del presente - rappresenta un vero e proprio “coup de théâtre”, realizzato con magnifica intuizione “dissonante”,  sulle note di una conosciutissima canzone di successo di quel periodo, Il barattolo  di Gianni Meccia (Rotola… rotola, strada facendo rotola, salta rimbalza e rotola, etc etc,) che irrompe prepotente con il roboante fracasso di un disco suonato da un juke box ,  a “evidenziare” implacabile la distanza appunto fra il “prima” che si è appena tragicamente concluso (A noi la morte non ci fa paura. Viva la morte e viva il cimitero) e quel “dopo” ancor più disumano, mentre contemporaneamente si modifica persino la “luce” delle riprese che passa dalla tetra penombra notturna  alla limpida luminescenza solare del giorno.
Un eccidio reale, quello che ci era stato raccontato in tutta la sua drammatica tragicità nel capitolo precedente, riguardante appunto i fatti di quella lunghissima notte del ’43 che Bassani aveva magnificamente descritto così nel suo libro (e Vancini ricostruito a sua volta con altrettanta atroce corrispondenza): “Le vittime della rappresaglia erano dieci, venti, cinquanta, cento… Ad abbandonarsi ai pronostici più disperati sembrava davvero, in principio, che non solo corso Roma, ma tutto il centro della città fosse seminato di morti. Ci volle dell’altro tempo, insomma – si arrivò, con questo, verso le nove e mezzo, le dieci del mattino - :  soltanto allora fu possibile sapere con precisione numero e identità degli uccisi.
Erano undici: riversi in tre mucchi lungo la spalletta della Fossa del Castello, lungo il tratto di marciapiede esattamente opposto al Caffè della Borsa e alla farmacia Barillari: e per contarli e riconoscerli, da parte dei primi che avevano osato accostarsi (in distanza non parevano nemmeno corpi umani: stracci, bensì, poveri stracci o fagotti buttati là, al sole, nella neve fradicia), era stato necessario rivoltare sulla schiena coloro che giacevano bocconi, nonché separare l’uno dall’altro quelli che, caduti abbracciandosi, facevano tutto uno stretto viluppo di membra irrigidite. E  ci fu appena il tempo, in realtà, di contarli e riconoscerli. Perché di lì a poco, sbucando improvvisa dall’angolo di corso Giovecca, una piccola macchina militare era venuta ad arrestarsi, con teatrale stridio di freni, davanti al gruppo raccolto attorno ai cadaveri. “Via! Via!”, fu gridato, prima ancora di balzare a terra, dai militari della Brigata Nera che l’occupavano. Sempre incalzati dalle grida di costoro, ai presenti non era rimasto che ritirarsi lentamente verso le opposte estremità del corso Roma: e di qui, tenendo tuttavia d’occhio i quattro militi che laggiù in fondo, sotto il sole ormai alto, montavano la guardia ai morti imbracciando i mitra, far sapere per telefono all’intera città quello che avevano visto e rischiato.
Orrore, pietà, paura folle: c’era questo nell’impressione che l’annuncio dei nomi dei fucilati destò in ogni casa. Non erano che undici, è vero. Ma si trattava di persone troppo note, in città, di persone delle quali, oltre ai nomi, si conoscevano troppo bene infiniti particolari del fisico e del morale. (…) Undici vite di cui si sapeva tutto, o quasi tutto,  cresciute insieme e insieme troncate, di schianto, lungo il marciapiede di fronte al portico del Caffè: troppo familiari, troppo legate ad ognuno, per mille legami, erano le undici vittime dell’eccidio – troppo intrecciate le loro esistenze modeste, alle modeste esistenze di ognuno – perché la loro fine non sembrasse di primo acchito un evento spaventoso, di una efferatezza quasi irreale.
Diciassette anni dopo quel terribile eccidio, Franco Villani, il protagonista (un ottimo Gabriele Ferzetti) figlio di uno di quegli undici innocenti trucidati dai colpi di coda della follia fascista, e dunque a sua volta “indiretta vittima” della sciagura, lo vediamo tornare alla natia Ferrara dalla repubblica elvetica dove si era rifugiato dopo quei fatti cruenti a causa delle sue credenziali di ebreo, con al seguito una moglie svizzera  e un figlio che parla francese: il passato è ormai alle spalle, lontano e obliato. Nel fermarsi a salutare gli amici di un tempo, si ritroverà  così faccia a faccia nel bar della cittadina con il responsabile principale dell’uccisione del padre, quel tale Carlo Aretusi (un altrettanto carismatico Gino Cervi), ex gerarca fascista ormai “candeggiato” e tornato a una “verginale innocenza”. Nessun problema nemmeno di titubanza o indecisione come sarebbe lecito attendersi però: i due si saluteranno da vecchi amici, “annullando” così  in quel gesto di reciproco disconoscimento, la memoria storica di un antagonismo lontano e di una tragedia consumata con furore in quella notte ormai rimossa.  Alla moglie che gli chiede chi sia  quel signore così gioviale e spavaldo, persino accattivante nella sua tracotante sicumera, che tanto bonariamente li ha accolti (proprio in questa maniera ce lo mostra il regista e l’attore che lo interpreta, quasi a voler sottolineare il grottesco “non sens” di ciò che ci viene rappresentato), l’uomo risponderà pacatamente, senza alcun turbamento: un  ex gerarca fascista;  ai suoi tempi era una figura importante, ma credo che non abbia fatto nulla di male. E su questa battuta, si chiude anche il film, mentre una bellissima carrellata in avanti, “costringe” la macchina da presa ad inquadrare implacabile in primo piano, la lapide che ricorda i caduti per la libertà, così da far risultare ancor più evidente e drammatico il controsenso.
Tale epilogo, di straordinario impatto anche empatico, strettamente legato  al contesto e in diretta connessione con tutta la parte precedente dell’opera (relativa appunto agli “anni della resistenza attiva”), testimonia come meglio non sarebbe possibile, che anche per Vancini, al pari di Visconti,  scrivere storia significa fare storia del presente, proprio nell’accezione gramsciana del termine (e lo verificheremo ancora meglio nelle opere più riuscite della maturità, come Il delitto Matteotti e soprattutto Bronte, cronaca di un massacro, che confermano pienamente le qualità e i limiti del suo lavoro: ottimo quando si trova ad affrontare temi sentiti e congeniali, molto più ordinario nelle più marginali prove che definirei “mercenarie”, dove spesso  sembra smarrirsi in uno sterile tecnicismo di facciata che ne rende persino poco riconoscibile il tratto).
Tornando all’opera in questione, la soluzione adottata per concludere la vicenda, ha una sua costruzione tutta cinematografica di rara potenza espressiva, poiché con questa efficacissima sintesi, il regista elimina la parte più didascalica del procedimento giudiziario in tribunale contro Carlo Aretusi detto “sciagura”, ma lascia intatta tutta la sconcertata disillusione dello scrittore che faceva ripetere baldanzosamente all’imputato a mò di scudo e di giustificazione: “Io fui soltanto il sodato di un’idea” in un processo sterile e inconcludente per mancanza di prove concrete e di testimoni, oltre che di vera voglia di giustizia,  che andava avanti a rilento nel caldo e nella noia, suscitando nel pubblico, che accorreva in gran folla ad ogni seduta, un senso crescente di inutilità e di impotenza.
E Vancini proprio per mezzo di quella stretta di mano finale che sancisce lo sdoganamento di quell’assoluzione indecente, rende più decisa e definitiva, perpetuandola proprio negli anni “a venire”, la denuncia e la condanna di una indifferenza che ha consentito agli assassini di un tempo – perfettamente integrati e riabilitati – di vivere impuniti fra noi, ed ha restituito loro il pieno e libero accesso alle leve del potere che hanno prontamente impugnato. Il gesto, acquisisce allora il senso del grido di una inascoltata “Cassandra” riferito a un futuro in cui sempre di più gli elementi “negavi” della storia tenderanno ad essere riportati verso il positivo e viceversa, che è poi l’incubo che stiamo giornalmente vivendo che sembra voler sovvertire per sempre l’intelligenza critica, via via che i “superstiti” si avviano lentamente all’inevitabile estinzione anagrafica, e le nuove generazioni dimostrano di aver definitivamente smarrito (non tutte per fortuna) la “lezione” della memoria, così come fa proprio Franco Villani con quell’indifferente (e soprattutto non necessario) caloroso saluto al carnefice di suo padre.
Le differenze dunque non sono sostanziali rispetto al racconto, grazie a una sceneggiatura  molto curata (scritta dallo stesso regista con la collaborazione di Pier Paolo Pasolini e di Ennio De Concini). Si può quindi tranquillamente affermare che nell’opera di Vancini le variazioni apportate sono soprattutto suggerite e motivate da oggettive esigenze  di trasposizione cinematografica. Sono comunque molteplici e non riguardano soltanto lo straordinario finale, visto che interessano anche  tutto il precedente andamento dei fatti, soprattutto quelli correlati alla storia d’amore che assume nel film un’importanza di gran lunga maggiore rispetto al racconto dove invece era appena accennata. Come ho già detto, non muta però nulla della prospettiva generale: Vancini e i suoi co-sceneggiatori  rimangono totalmente fedeli allo sconfortato atteggiamento conclusivo di Bassani: le Cinque storie ferraresi fanno parte di un unico corpo di scrittura realizzato attraverso cinque differenti racconti – sei se si inglobasse anche il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini - che compongono il puzzle di un “progetto unificato”, che se letto nella logica successione, conferma un sostanziale pessimismo e una altrettanto sconsolata sfiducia nel futuro. In ultima analisi dunque, una cosciente e lucida constatazione (che anche Vancini fa sua) del disorientato stato d’animo quasi di resa  di un uomo – il Bassani appunto – che con la sua diretta partecipazione alla guerra oppositiva contro Mussolini e i suoi adepti, aveva sperato di poter ipotizzare un futuro molto diverso da quello che invece si era poi realizzato praticamente per le opportunistiche connivenze del dopoguerra.
In questa prospettiva,  non è dunque un caso  che anche i personaggi di Vancini (come già in pratica quelli di Zurlini nel suo Estate violenta) siano in fondo tutti negativi. Al troppo conciliante Franco Villani e all’Aretusi (che sfata il mito spesso “costruito ad arte” di certi gerarchi romagnoli che sono stati fatti passare per bonarie persone dedite più alla buona cucina e al gallismo che ai crimini della “politica” fascista), si aggiungono infatti, tutt’altro che secondari, il viscido, sifilitico farmacista Barillari inchiodato  su una sedia a rotelle dalla malattia che lo devasta e vigile e “muto” testimone degli avvenimenti nascosto dietro le persiane della sua finestra (una imponente caratterizzazione di straordinaria efficacia del grande Enrico Maria Salerno che giustamente, sempre a Venezia, si aggiudicò il premio per la migliore interpretazione) e la “fedifraga” moglie Anna (una sfolgorante Belinda Lee, che cercava diligentemente di muovere i primi passi in un più serioso percorso “artistico”, purtroppo stroncato prematuramente da un fatale incidente mortale). Persino l’antifascista padre di Franco, il cui atteggiamento oppositivo risulta davvero troppo debole e marginale rispetto alle necessità del momento, rimane una incerta e problematica presenza un po’ defilata sullo sfondo, certamente più propensa all’inerzia che all’azione. Sono comunque figure che non mancano di una loro profonda autenticità , dentro una costruzione fortemente drammatica che ne rende evidenti contraddizioni e limiti.
Non c’è dubbio che “La lunga notte del ’43” si alimenta in un clima di memoria. – dichiarò il regista nel corso di un’intervista  – Sono legato affettivamente agli anni descritti. Anche gli anni più tristi e più neri della gioventù assumono un tono suggestivo nella memoria. Quindi il film è tutto fondato sui ricordi. Se ho scelto il racconto di Bassani, lo si deve al fatto che in esso ho trovato qualcosa  che era già in me. E il filtraggio dei ricordi personali, si avverte particolarmente proprio nell’aderenza “fortemente” idealizzata supportata dalla qualità evocativa della fotografia che conferma come  davvero il regista si sia affidato nella ricostruzione, molto di più alla memoria personale che all’esperienza storica vera e propria. E’ l’empatia che trasmettono  le immagini a farci percepire la suggestiva corrispondenza fra scrittore e regista, quasi che Vancini avesse davvero trovato proprio in quelle struggenti pagine di Bassani,  l’eco per sondare e far lievitare quanto si era depositato in lui non solo di ciò che era accaduto negli anni immediatamente successivi a quel drammatico ’43, ma anche dei fatti salienti che lo avevano preceduto, che vengono ricordati sommariamente riportandone le date più decisive mentre sullo schermo scorrono i titoli di testa, e che rappresentano la cornice necessaria per inquadrare l’epoca in cui inizia la vicenda  e si sviluppa il vulnus centrale e più corposo del racconto.
Il film è dunque è una drammatica testimonianza di crisi, o ancora meglio, dell’incapacità di aderire, come sarebbe stato invece necessario fare, a “ragioni umane di ampio respiro” che la portata storica degli avvenimenti avrebbero dovuto invece privilegiare, che prende corpo e si sviluppa  attraverso una storia crudele e amara, sospesa fra la mediocrità della vita di provincia e l’asprezza di una spietata guerra civile in corso, che Vancini narra con stile semplice, senza impennate, ma con un occhio particolarmente attento ai volti e all’ambiente (una Ferrara invernale e cupa in gran parte ricostruita in studio e magnificamente fotografata da Carlo di Palma che con i suoi straordinari chiaroscuri aiuta molto il lavoro del regista sulla definizione delle atmosfere).
In fondo, davvero un’acre descrizione della pochezza piccolo borghese e delle sue (in)civiltà, che sancisce una morale ancor più terrificante, con quel suo tracciare proprio il segno di una discutibilissima “parità” fra gli orrori fascisti e i conformismi postbellici, in quel finale che ho giustamente ricordato in assoluto primo piano, poichè è davvero l’elemento qualificante della pellicola, nel quale indifferenza e raccapriccio si fondono non però per far emergere l’inevitabilità ineluttabile delle cose, ma bensì per cercare di far risvegliare nello spettatore un forte ed indignato risentimento non soltanto di natura etica, che è anche (a mio avviso) un implicito invito alla ribellione.
A titolo di semplice curiosità, ricordo che fra gli interpreti di spalla, troviamo anche una giovane Raffaella Carrà (qui ancora Pelloni) che interpreta  correttamente il ruolo della sorella di Franco, non ancora deviata dalle lusinghe del successo televisivo che di lì a poco l’avrebbero fagocitata, facendola approdare su altri lidi di differente spessore anche se di più largo successo (per quel che riguarderà il suo personale “tornaconto”.

Sulla trama

La storia è ambientata a Ferrara nell’autunno del 1943. Dopo l’8 settembre, il fascista Carlo Aretusi, il farmacista Pino Barillari (paralizzato alla gambe a causa della sifilide) e il console Bolognesi che svolge attività di federale, si adoperano per una pronta riorganizzazione del partito. Sullo sfondo della ripresa di una relazione adulterina fra Anna, moglie del paralitico farmacista e Franco Villani, il bieco Aretusi fa prima assassinare da un sicario il console che fa troppa ombra alle sue personali, squallide ambizioni di successo, facendo però ricadere (come sempre accade in queste circostanze nefaste, dai tempi di Nerone ai giorni nostri) la responsabilità dell’accaduto sugli “innocenti” antifascisti della zona. La ritorsione è immediata  e le brigate nere rastrelleranno e fucileranno un gruppo di  conosciuti notabili della zona (fra loro anche il padre di Franco) davanti al Castello,  e proprio sotto le finestre del farmacista che “vede” ma non parla. Franco per salvarsi, sarà costretto a rifugiarsi all’estero. 17 anni dopo, di ritorno dalla Svizzera con mogie e figlio al seguito, ritroverà a Ferrara il rigenerato bieco Aretusi…. Amara constatazione di una coscienza smarrita: i due si saluteranno cordialmente, con altrettanta cordialità si stringeranno la mano, come “se nulla fosse davvero accaduto”.

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