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Luna di miele in tre

Regia di Carlo Vanzina vedi scheda film

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La recensione su Luna di miele in tre

di alan smithee
6 stelle

VANZINA & CO.

Alfredo sogna l’America delle formose starlette di Playmen di cui ha fieramente tappezzata tutta la cameretta da single che gli concede il suo datore di lavoro, ma è costretto per ironia della sorte a servire le vecchie clienti di un antico ed antiquato albergo di Stresa, ove lavora come maldestro e inaffidabile cameriere. Il giorno che incontra la cassiera zitella di un bar di nome Graziella, questa lo incastra trascinandolo all’altare. Peccato che, proprio mentre si apprestano a partire per Sanremo in viaggio di nozze (eheheh), egli non risulti vincitore di un concorso indetto dalla rivista per adulti di cui non perde un numero, aggiudicandosi cinque giorni in Giamaica con una delle protagoniste dei suoi sogni erotici.

Non sapendo come fare, l’uomo disdice Sanremo e parte per l’isola caraibica con neo moglie appresso, ovviamente ignara di tutto.

In loco dovrà destreggiarsi tra un bieco fotografo della rivista, intento a lucrare sulla vacanza premio dell’affezionato lettore, tra una moglie che non capisce come mai egli sparisce sempre all’improvviso, e tutta una serie di disavventure e incomprensioni, tra le quali un parrucchiere omosessuale che arriva a credere che l’uomo gli stia facendo la corte (lo interpreta con macchiettistica spiritosaggine un noto attore porno dell’epoca, Harry Reems).

Gli capiterà di tutto, tranne che trascorrere anche solo un attimo di intimità con la agognata dea dei propri piaceri su carta stampata.

L’esordio in regia di Carlo Vanzina, anche sceneggiatore assieme al fratello Enrico come in tutte le numerose avventure che seguiranno in oltre quarant’anni di cinema “popolare”, appare come uno spiritoso e adeguatamente pecoreccio bozzetto d’Italietta volgare e paesana, tutta tic, figure macchietta e tentativi maldestri di averla vinta su difficoltà ed ostacoli che la vita pone dinanzi.

Il linguaggio, per quanto tendente al greve, risulta anche e forse ancor più quarant’anni dopo la sua uscita nelle sale, uno strumento efficace, arguto e convincente per fornirci uno spaccato convincente di un’epoca che in molti preserviamo ancora viva nella memoria: un paese di provincia popolato da gente furbetta ed approfittatrice, che vince le difficoltà con l’inganno e con una innata ironia mista a sarcasmo, quello stesso che a volte fornisce l’energia per andare avanti nonostante la mediocrità, se non meschineria, del contesto generale.

Ed il tentativo di trasportare, anzi catapultare, il provincialismo del Nord Italia nella lontana America della disinibizione e dell’internazionalità, del glamour e del bel vivere, in qualche modo funziona, magari non come all’epoca del miglior Sordi diretto dai maestri (e in un caso genitori pensando a Steno) dei qui presenti fratelli, grazie proprio all’accento farsesco che gli fa da contrasto, stampato negli atteggiamenti provinciali e volgari del protagonista e della sua corte di villani abbruttiti e approfittatori, ingenui ed ignoranti, ma non per questo incapaci di guardare ognuno al proprio tornaconto.

Renato Pozzetto iniziava proprio in quegli anni la sua folgorante carriera “solista” di comico televisivo votato al cinema di facile incasso; gli fanno da spalla oltre che il fedele Cochi Ponzoni, un platinato Massimo Boldi, mentre nel ruolo della cassiera ingenua si, ma fino ad un certo punto, Stefania Casini, quasi una Olivia con medesimo accento cantilenoso/dialettale da vittima quasi compiaciuta, risulta perfetta.

Nel ruolo del manager fotografo approfittatore, l’italo americano Vincent Gardenia è pure un interprete azzeccato, mentre alla comicità stralunata e sofisticata di Felice Andreasi, spetta il compito di trasporre i tic ed i vezzi del capo severo ed inopportuno in grado di incastrare sempre Alfredo in flagranza di reato. 

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