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The Reader. A voce alta

Regia di Stephen Daldry vedi scheda film

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La recensione su The Reader. A voce alta

di spopola
8 stelle

Il libro dal quale è stata tratta questa intensa pellicola, era sugli scaffali delle nostre librerie (grazie a Garzanti) già da parecchi anni, ma come sempre accade, per far parlare davvero di sé qui in Italia, si è dovuto aspettare la programmazione in sala del film, “il chiacchierare” un po’ ardito che se ne è fatto intorno, soprattutto in relazione alla “sottile perversa ambiguità” dei rapporti che contrappongono i due protagonisti di una storia davvero emblematica che dovrebbe stimolare semmai riflessioni profonde (non tanto sull’olocausto in quanto tale, ma sulle “omissioni” e i silenzi oltre che sui percorsi formativi della comprensione e della coscienza). Il libro è potente e “infiltrante”, nel senso che si insinua dentro il lettore con la forza urticante della “provocazione” suscitando dubbi ed emozioni profonde. Il film non riesce a mantener lo stesso livello di “attenzione critica”, ma possiamo dire che il regista Stephen Daltry riesce abbastanza bene a trasmetterne il senso, nel passaggio dalla parola allo schermo, a restituirci insomma la percezione stranita di questa implicita “confessione di molte reticenze” che l’ammissione postuma non giustifica né assolve. C’è ovviamente uno “scarto” verso l’esibizione esteriorizzata del “dramma” (soprattutto nella seconda parte) ma tutto sommato pur con le inevitabili divergenze stilistiche, si può dire che l’impianto è solidamente fedele, anche troppo per alcuni versi, come per esempio la parte americana dell’incontro fra Michael e la superstite ebrea, che preso come episodio a se stante, è perfetto e “chiarificatore”, ma niente aggiunge (come già prima di me qualche altro recensore “illuminato” del sito ha evidenziato) a quanto “avevamo già compreso e meditato”, perchè spesso le immagini riescono a sintetizzare molto meglio e con più “economia” delle parole, un pensiero, uno status e una “conclusione”, e allora diventa semplicemente una appendice “esplicativa” appena un po’ pletorica Comunque nel libro c’è ed è “fondante” e ci può stare anche nel film (per lo meno non “stona”) e se non altro, ha il pregio di farci ritrovare l’intensa, partecipata presenza di una attrice lasciata un po’ troppo in “disparte” negli ultimi anni dal cinema americano come Lena Olin. La sceneggiatura è opera del commediografo e regista David Hare che travasa una parte delle inquietudini personali rintracciabili nelle sue opere migliori (ricordate “Il mistero di Wetherby”?) anche dentro la storia e nei personaggi che animano questo doloroso viaggio nella memoria collettiva (responsabilità morali comprese) di un’intera nazione, ma che al tempo stesso è anche un racconto di sesso e di “seduzione”, oltre che una implicita “metaforizzazione” interpretativa (l’analfabetismo di Hanna inteso come parafrasi delle “consapevoli” colpe se non altro omissive, dell’intero popolo tedesco) sulla importanza dell’apprendere come inevitabile tramite per “conoscere”, “sapere”, e persino “riscattarsi”. E come spesso nel cinema di Daltry, il suo procedere è un elegante gioco fatto di piani narrativi differenti con reiterati flashback che si intersecano nel racconto alternando presente e passato, anche sovrapponendosi a volte, una ricostruzione a mosaico che piano piano - lentamente - ricompone tutti i pezzi del puzzle. La prima parte - quella che “ricostruisce” il rapporto, il legame erotico fra il quindicenne Michael e la più che trentenne Hanna - è certamente la più “attrattiva” e intrigante, un “romanzo” di formazione e di “dannazione” che è anche un accurato e originale studio (per le modalità traslate dei termini in cui si verificano i rapporti e gli amplessi, fra Cechov, Omero e Lawrence) sull’educazione amatoria di un adolescente alla scoperta della sua sessualità, un percorso che lascerà tracce indelebili, “scalfitture” profonde nell’uomo, dalle quali solo alla fine, al termine di quel lungo viaggio a ritroso “nella sua notte” riuscirà a sentirsi davvero libero e in parte riconciliato, proprio facendolo uscire dai chiusi recessi della sua anima, “raccontandolo” (alla figlia, nella inevitabile ma non disdicevole semplificazione del film rispetto al romanzo) , rendendolo in qualche modo non più solo “personale”. La seconda inevitabilmente forse coinvolge di più l’emozione, anche se maggiormente schematizzata e didascalica, quasi un saggio un po’ asettico, ma entomologicamente rilevante sulla inevitabile necessità di confrontarsi, affrontandoli (persino storicizzandoli) con i traumi collettivi di un passato e di una memoria come quello che centralizza il pensiero sui campi di sterminio nazisti. Sarebbe però fuorviante ridurre il tutto a un percorso di “riscatto” non solo individuale che possa indurre a immaginare un minimo sentimento di pietà (non di comprensione né di giustificazione) per il personaggio di Hanna e le sue colpe: il discorso che non esclude ovviamente anche questa prospettiva di visione, è certamente molto più complesso ed articolato, ha quantomeno molte duplici valenze (che il regista gestisce piuttosto bene, con appropriata coerenza stilistica) come già accennato sopra, fra rifiuto e “ammissione”, sensualità e memoria, disperazione e passione, tragedia collettiva e piacere personale, coscienza e incoscienza, erotismo carnale e angosciante senso di morte, il tutto contrappuntato dalla lettura dei libri che con le loro “seduzioni” lessicali riescono in qualche modo alla resa dei conti, se non proprio a salvare, per lo meno a “riscattare” una vita. Il racconto inizia alla fine degli anni ’50, quando Michael uno studente in età adolescenziale, si ammala improvvisamente nel percorso fra scuola e casa (strana e un po’ inesplicabile decisione quella di connotare nel film la malattia come “scarlattina” anziché “confermare” l’itterizia del libro, per altro più “giustificabile” come causa dell’attacco di vomito del ragazzo che innesca il contatto che darà poi origine al successivo abbandono progressivo alla “passione”) cerca riparo nel portone di una casa e viene casualmente soccorso da una sconosciuta che abita proprio lì. Tornato a ringraziarla dopo essere guarito, si innescherà un “corto circuito sessuale” fra l’erotismo un po’ dismesso e appassito di un corpo “bisognoso di calore” e una giovinezza assetata di amore, che sfocerà in un rapporto ambiguo e conflittuale che coinvolgerà entrambi dentro una un po’ “insana passione” “ben oltre il sesso fine a se stesso”… una lunga “iniziazione” insomma fatta di parole (le letture dei libri che procedono o seguono gli amplessi) e di atti concretamente carnali. Ma Hanna scomparirà improvvisamente senza lasciare alcuna traccia di sé (si scopriranno a posteriori le ragioni della fuga) interrompendo il flusso. Otto anni dopo, diventato uno studente di legge Michael la incontrerà di nuovo, quasi per caso, scoprendola imputata di un processo per crimini perpetrati in un campo di concentramento nazista. Sconvolto e disperato, il ragazzo proverà a sua volta il dramma (e il peso) del “silenzio” (straordinarie in questo percorso di reciproca ammissione “omissiva” le scene e i dialoghi con il professore magistralmente interpretato da Bruno Ganz), rimanendone ossessionato (e condizionato) per tutta la vita… di più non si può dire.. si tradirebbe il piacere di assaporare il percorso, di entrarci dentro “percettivamente” quasi con discrezionalità, dove il pubblico e il privato si intrecciano in maniera sorprendente e quasi incontenibile per esprimere la sua “morale” che non può lasciare indifferenti. Essenziale l’apporto straordinario di una Kate Winslet in stato di grazia, sfrontatamente “ferina” nella prima parte, e consapevole portatrice del senso di colpa della sua nazione nella seconda (giustamente meritato il premio che le è stato assegnato, anche se io l’ho preferita in Revolutionary Road – che poteva essere accomunato – dove, se possibile, è ancor più “gigantesca”) che è l’anima stessa del film, ne impreziosisce il tessuto, lo riveste di autenticità e di consapevole “disperazione”, intensa e dolorante, ma mai melodrammatica, nel far trasparire il fardello del suo non assolversi, adesso che ha “imparato” a capire e “sa”. E’ così intensamente “dentro la coscienza della donna” che riesce a far percepire persino “fisicamente”, certamente aiutata anche dal trucco (ma quel camminare affaticato e “pesante” rimane una indovinata intuizione riuscita e personale) il cangiare del “dramma” verso la “tragedia”. Ottimo anche il convincente ritratto di Michael adolescente che ci viene offerto dal promettente David Kross che non si ritrae nemmeno di fronte alla “necessità ad “esporsi” in un breve ma intenso “nudo” frontale casto e conturbante al tempo stesso. Più asettico e conforme il Michael adulto di Ralph Fiennes, un po’ monocorde e attonito (ma al personaggio forse non poteva offrire molto più di questo, perché tutto il percorso era già stato fatto da Kross… e a lui non restavano che le briciole di una “disgregazione” interiore bisognosa di ricomporsi). C’è comunque da segnalare fra molte positività e qualche cedimento (tempi a volte un po’ troppo dilatati, qualche prolissità narrativa, persino un eccesso di “forma” a volte) un elemento fortemente dissonante che io considero oggettivamente inaccettabile (e che oscura non poco il lavoro del regista – forse proprio per la presunzione – perché non può essere né una svista né una superficialità - di considerare, come spesso accade anglofoni, la lingua inglese “caput mundi”). Mi riferisco al fatto che in tanta accuratezza scenografica nel ricostruire i luoghi, i tempi ed i costumi, si cade poi nel tritello – e considerato il valore che la cosa ha nella struttura narrativa ciò che sto per stigmatizzare è a mio avviso imperdonabile – non solo di far scrivere in inglese le missive che si inviano i protagonisti (transeat), ma anche e soprattutto di utilizzare volumi non in lingua germanica, perché i libri – i molti che si vedono spesso in primo piano - sono tutti in inglese, compresi quelli presi nella biblioteca del carcere tedesco (sic!) dove è rinchiusa, ed è allora sull’inglese, non sul tedesco come dovrebbe essere, che Hanna si esercita e impara a leggere. Allora è inutile (e anche un po’ ridicolo) che nelle strade si legga spesso “Zimmer” se poi. Si accetta un simile teribile pressappochismo. Non si pretende insomma la precisione filologica di un Visconti, a volte persino troppo maniacale sia in teatro che in cinema (si racconta che per la rappresentazione di “Veglia la mia Casa Angelo” il nostro pretendesse che i servizi di piatti che dovevano essere rotti in una scena ogni sera fossero quelli di “autentici servizi d’epoca”) ma un minimo di attenzione dovrebbe essere pretesa, perché non è un particolare secondario, ma uno “strafalcione” snaturante che personalmente mi ha fatto imbestialire.

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