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Colpo di fulmine. Il mago della truffa

Regia di Glenn Ficarra, John Requa vedi scheda film

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La recensione su Colpo di fulmine. Il mago della truffa

di ROTOTOM
8 stelle

Jim Carrey deve avere qualche conto in sospeso con le case di distribuzione italiane e in special modo con i titolisti.
Non si capisce per quale motivo ancora una volta e ancora in modo così assurdamente fuorviante il film di Glenn Ficarra e John Requa, sceneggiatori dello sgraziato e corrosivo Babbo Bastardo, si trasformi I love you Philip Morris nel titolo da ibrido sentimental-demenzial-criminale proponendo un trailer a tutto gag, grottesco e parziale. Evidentemente per i distributori italiani Carrey è ancora quello di Ace Ventura (che tra l’altro è un signor film). La stessa cosa accadde per The Cable Guy, il ragazzo del cavo del film di Ben Stiller tradotto molto più velocemente Il Rompiscatole trasformando in macchietta stereotipata un acido dramma di solitudine urbana. E ancora peggio venne fatto con il capolavoro riconosciuto della coppia Kaufman/Gondry “Eternal Sunshine of the Spotless Mind”, l’eterno splendore delle menti illuminate di un intensissimo Carrey al fianco di una fragile meravigliosa Kate Winslet, trasformato in Se mi lasci ti cancello, criminale mutazione di un intenso dramma sulla rimozione del dolore in una commedia sciocca sugli amorazzi generazionali. Il risultato di queste perle di idiozia, inoculate tra l’altro da gente che è pagata per curare la promozione e la diffusione dei film, è quella di allontanare dalla sala chi sarebbe interessato alla reale tematica della pellicola e deludendo profondamente chi invece pensa di trascorrere una serata all’insegna del divertimento leggero ritrovandosi di fronte opere di acre spessore drammatico, come spesso succede nei film di Carrey , magari accompagnati da dei bambini. Niente di male, dopo tutto. Basta che si paghi, una volta pagato il biglietto il film evidentemente ha già adempiuto alla sua funzione, la visione è un optional.
Lasciamo perdere il fuorviante e stupido titolo italiano.
I love you Phillip Morris  è il titolo originale e la frase che il truffatore-gay Steven Russell (Jim Carrey) urla al suo innamorato, Phillip Morris (Ewan Mc Gregor) appunto, mentre viene trasferito dal carcere in cui è stato rinchiuso per truffa assicurativa. Il buon Steven prima di allora era un buon marito e buon padre di famiglia, ancora prima un poliziotto onesto e rispettato, ancora prima un bambino che subiva il trauma della scoperta dell’abbandono della madre naturale e successiva adozione e poco prima ancora un bimbetto che nel cielo tra le forme delle nuvole ci vedeva cazzi, invece di trattori.
Così inizia il film e così prosegue tra i lazzi e i frizzi della commedia leggera per un quarto d’ora, con il gommoso Carrey che esegue diligentemente le scene dei trailer in modo da rassicurare gli spettatori che non hanno sbagliato film. Poi tutto cambia, lo stacco è notevole e doloroso, spiazzante. Il comico muta in dramma carcerario nel volgere di una scena, si intreccia col melò, mostra l’erompere dell’omossessualità repressa,  una crudele patina nera si sostituisce al pastello e i due attori danno vita ad una delle coppie di gay più credibili mai viste sullo schermo. La cosa incredibile è che la storia è vera. Jim Carrey, è letteralmente il film fattosi carne. Ogni suo movimento, espressione è un saggio di recitazione corporea capace di veicolare nel gesto la grottesca tragicità della vita, tirando al riso e nello stesso tempo facendo sentire in colpa per averlo fatto. Acido e sarcastico si fondono nella maschera di Jim Carrey, anomalia del sistema di una matrice sociale di comprovata affidabilità. Crollano impietose sotto i colpi della fisicità e della sua mimica  le istituzioni religiose, sociali, economiche, giuridiche ma nel contempo affiorano i dubbi, le debolezze di un uomo perso dentro se stesso.
Al  contatto l’ambiente circostante diventa un crogiuolo di idiozia e superficialità inquinato dalla presenza di un virus qual è  Steven, elemento parassitario e mutevole di una società alla deriva senza più alcun punto di riferimento. Determinato nel suo perpetrare la falsità e l’opportunismo, il suo essere vuoto è una condizione privilegiata, una figura dai contorni sfumati che ognuno riempie con ciò che vuole credere che egli sia. E’ una percezione ottica quella che il mondo ha di Steven/Carrey, una vibrazione della luce, una verità incontrovertibile che aspetta solo di crollare sotto il suo stesso peso. E’ la natura, null’altro, qualcosa che forse la sua vera madre, vendendo il figlio nel parcheggio di un centro commerciale, aveva già intuito. La natura di Steven è quella di fottere il mondo a suo esclusivo vantaggio e amare perdutamente il suo compagno Phillip senza necessariamente far dipendere una cosa dall’altra. I soldi a parte ovviamente. Nel testo infatti non c’è alcuna correlazione tra l’omossessualità e la tendenza all’inganno come suppone l’ignorante pia ex moglie di Steven, timorata di Dio senza alcun perché. E proprio il concetto di “unione” tra due esseri umani che viene stravolto: tanto è grottesco e ipocrita il rapporto di Steven con la moglie, tanto è eccessiva e dalla connotazione teatralmente gay traslata dall’immaginario maschile la relazione con il primo fidanzato, tanto è naturale e giocato con le dinamiche sentimentali e le ritualità quotidiane della coppia etero quella con Phillip, biondo ingenuo femmineo e innamorato.
 Viene subdolamente messa alla berlina la cultura macho del Texas (che nella realtà si vendicherà nel 1998 condannando all’ergastolo il buon Steven con Bush governatore) insinuando sospetti sulla mancata ossigenazione di organi  pensanti a vantaggio di corpi cavernosi, viste le innumerevoli rocambolesche evasioni.  Ma questa è solo una mia personale chiave di lettura.
I due registi nel seguire le gesta truffaldine del protagonista seminano essi stessi falsità visive, tranelli di regia e sceneggiatura ammantando il tutto di un’aura di pacchianeria conclamata qual è la sfrontataggine di Steven nel proporsi sotto le improbabili vesti dei vari ruoli che via via interpreta nella sua vita, pacchianeria della quale nessuno si accorge esattamente come lo spettatore si avvede della trappola solo nel momento in cui la scena svela la verità. Particolari, piccole cose  che connotano lo stile accordandolo alla storia, elementi fusi in un testo maturo e cattivo smorzato dalla comicità e ribadito dal dramma la cui messa in scena non offre nessun appiglio consolatorio. Non c’è alcuna tesi da sostenere, non ci sono buoni o cattivi, giusto e sbagliato sono aggettivi eterei. C’è la natura umana, l’amore e intorno tutto che crolla. E’ una storia vera, così è se vi pare.

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