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Louise Michel

Regia di Benoît Délepine, Gustave Kervern vedi scheda film

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La recensione su Louise Michel

di giancarlo visitilli
8 stelle

Quando la società vuole fare a meno dei reietti, per fortuna ci sono almeno la letteratura e il cinema a raccontarli. E se poi si è fortunati, capita di ritrovarsi due giovani autori capaci di dire le cose più atroci e tristi di questo mondo, utilizzando la commedia. Ma delle più atroci e drammaticamente autentiche. Tanto che c’è da pensarci su, se una mano pelosa, massiccia e sudaticcia accarezza il viso di un altro uomo che fino a quel momento, più uomo di così… Ma non bastano le apparenze: i capelli lunghi, le gonne di taglie confortate, una voce poco maschile, le andature poco femminili, a fare di un essere una donna o un uomo. Può avvenire anche la fusione, come nel caso del film dei due straordinari registi francesi, De Kervern e Delépine, e dei loro due personaggi del film, estratti come bene prezioso, dai sottosuoli urbani della società. Una fusione che genera confusione, ma non ci si può sbagliare: di materiale umano si tratta. Per giunta prezioso. Non agli occhi del mondo, come nel caso, per esempio, di Louise, ex galeotta condannata per omicidio e le sue colleghe, operaie in un paesino francese, che si ritrovano ad essere licenziate, proprio come avviene oggi, da un momento all’altro, senza un minimo preavviso. Così tutte decidono di mettere insieme i soldi della liquidazione, per un fine e bene comune: ammazzare il loro padrone, assoldando un assassino professionista.
La sovrabbondanza delle carni, la trasandatezza e la sgraziataggine dei due protagonisti è ciò che rende assolutamente reale, nella sua grottesca rappresentazione, la storia, anzi le storie, attuali descritte con maestria nel film, in cui c’è spazio e tempo, sorridendo, per la condanna sociale. Qui è messa sotto la lente di ingrandimento la disperazione fra “chi ha letto un milione di libri e chi non sa nemmeno parlare”, per dirla con le parole di un cantautore che scriveva canzoni al modo di come i due esordienti registi descrivono l’umanità, ormai globalizzata anche nella sua disperazione.
Stranissimo, bizzarro e assolutamente unico questo film, che tanto di paradossale non ha. Nel senso che alla crudeltà del reale, messo in atto attraverso il suo racconto, ci stiamo arrivando, nella possibilità che si sarà costretti a cambiare anche sesso, pur di essere agevolati nella ricerca di un lavoro. Inquietante, senz’altro, ma nulla di meno vero. In esso finanche il contesto paesaggistico risente dell’umore interiore di tutti i personaggi: dai colori algidi dei paesaggi, molto intimi ed essenziali, rispetto allo scenario più mistificato, addolcito e ben ordinato, perché lontano dalla propria casa, come quella parte della City che riempie gli spazi della parte finale del film.
Non ci sono eccessivi movimenti nel film, ma strepitosi mutamenti. Quasi sempre la camera è lì che osserva l’insieme, salvo, poi, precipitare anch’essa nella buca in cui involontariamente l’auto s’inabissa. Perché, per descrivere la vita di chi non può permettersi una bottiglia di vodka, neanche poi così costosa, non ci vuole tanto. Per comprendere la vita di chi dalla fabbrica è messo fuori, nonostante la mole degli anni di lavoro, basta semplicemente uno sguardo. Non ci sono parole che riescano a spiegare la disperazione dei milioni di operai che in questi mesi, settimane e giorni perdono il lavoro. E’ stato per questo che i due registi hanno scelto delle vere operaie, autentiche lavoratrici rimaste senza lavoro, alle quali è stato richiesto di interpretare se stesse. Sono semplicemente perfette nella loro disperazione. Da Oscar.
Un film come questo ha la stessa potenza del new deal roosveltiano, un modo per cercare di capire “come ti risolvo la crisi”. Gustave De Kervern e Benoît Delépine l’hanno compreso appieno ed hanno centrato, mediante una nerissima commedia che sarebbe veramente un peccato, di ‘sti tempi, perdere. Non lontana dall’anarchia allo stato puro, non solo delle operaie, ma anche dei due registi, che al modo degli operai della fabbrica-cinema, pur ammettendo di non conoscere appieno come il giocattolo funzioni, hanno fabbricato una vera e propria opera d’arte.
Giancarlo Visitilli

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