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Il negozio al corso

Regia di Ján Kadár, Elmar Klos vedi scheda film

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La recensione su Il negozio al corso

di Peppe Comune
9 stelle

Siamo nel 1942, in una piccola cittadina della Slovacchia occupata dall’esercito nazista. Tono Brtko (Jozef Kroner) è un falegname rimasto senza lavoro. La moglie Evelyna (Hana Slivková) non accetta di buon grado di vivere di stenti e invoglia il marito ad assecondare la proposta del cognato Marcus Kolkotsky (František Zvarík), un luogotenente sul posto dell’autorità nazista. In base alle nuove leggi antisemite, tutti i negozi ebrei verranno requisiti per essere dati in gestione agli “ariani” che ne facciano richiesta. Così, nonostante i suoi sentimenti antifascisti, a Tono capita di prendere in gestione il piccolo negozio di bottoni della signora Rozalie Lautmann (Ida Kami?ska). Ma l’anziana donna è molto sorda e non si rende conto di quello che sta succedendo perché non è facile fargli capire le cose. Aiutato dall’amico Martin Peter (Mikuláš Ladižinský), Tono gli fa credere di essere un commesso che è stato mandato per aiutarla nella gestione del negozio. La vecchia è contenta di avere un aiuto e di non essere più sola, così come l’uomo di non venir meno alla sua bontà d’animo e di aiutare la donna a rimanere immune dalla paura. Intanto, in mezzo alla piazza principale, proprio di fronte al negozio, si sta costruendo una specie di torre di Babele, che cresce col crescere del regime del terrore. E che sarà finita proprio quando la soluzione finale riguarderà tutti gli ebrei del quartiere.

 

 

 Vále?ný film Obchod na korze: Komunisté cht?li sošku Oscara vrátit ...

"Il negozio al corso" - Scena

 

Liberamente ispirato al racconto “La trappola” di Ladislav Grosman, “Il negozio al corso” (premio Oscar come miglio film straniero) del duo Ján Kadár ed Elmar Klos è uno dei film simbolo della Nova Vlna cecoslovacca, fosse solo perché questa “nuova onda” è nata e si è sviluppata all’interno di un regime totalitario, e parlare dei suoi effetti cancrenosi senza dare troppo nell’occhio è dovuta essere una sua caratteristica peculiare. Infatti, “Il negozio al corso” spicca per il suo respiro apparentemente canzonatorio, per il suo dosare abilmente il momento ironico con quello drammatico, la leggerezza del tocco che attraversa l’impianto narrativo con i moventi speculativi che s’intendono trasmettere. Tutta la prima parte del film è tesa a delineare la tranquilla vita di provincia, con la varia umanità affaccendata nelle sue incombenze quotidiane, incurante dei segni dell’orrore che si fanno strada intorno a loro. Anche il sonoro serve a contrappuntare questa sensazione palpabile di generale spensieratezza, poggiata sul sentirsi tutto sommati lontani dal buio che avanza. Poi la faccenda si fa sempre più seria e il conformismo, vissuto come una docile adesione alla “grande storia” che si compie, si trasforma in un obbligo a fare da cui non ci si può più sottrarre. Il senso di paura viene iniettato poco alla volta, assumendo così i connotati della cosa ineluttabile. Questo andamento narrativo voluto da Kadár e Klos è servito per offrire un quadro propedeutico alla lenta e indolore stratificazione del male. Perché è il teorema “arendtiano” sulla banalità del male a fare da sfondo poetico al film ; perché è la constatazione empirica che può esistere una calma tragica accettata da tutti per abitudine ad essere rappresentata con adeguata perizia cinematografica. Ovvero, con una tecnica applicata al fare cinema che assomma i mezzi della commedia con le finalità del dramma. Infatti, gli autori della Nova Vlna imbastiscono un film abbastanza “debitore” degli stilemi tipici della commedia degli equivoci, ma guardandolo nella sua interezza ci si rende conto che lo fanno, non solo per satireggiare sull’ordinaria vigliaccheria dell’essere umano e sul modo con cui si ci adagia docilmente al senso comune dominante, ma soprattutto per riflettere sull’irrisoria banalità con cui il male può impossessarsi della vita sociale.

In questo quadro di generale conformismo, Tono e Rozalie sono due alieni diversamente distanti dal pensiero dominante : l’uno, perché è solamente per sfuggire alla disperazione più nera che nasconde i suoi sentimenti antifascisti ; l’altra, perché la sordità veramente non gli fa rendere conto di quello che sta succedendo. Da qui emerge l’aspetto, a mio parere, più affascinante del film : l’incontro scontro tra l’inconsapevolezza della vecchia rispetto al pericolo che incombe su di lei e la crescente consapevolezza dell’uomo di essere solo una pedina in un più ampio ingranaggio di morte.  L’anziana donna rimane sé stessa perché non può essere impaurita dalle voci del maligno. L’uomo ne è soggiogato suo malgrado e nel cercare di preservare quell’essenza umana rimasta immune dalla generale corruzione dello spirito scorge l’unico scopo utile che può sposarsi con la sua causa morale. Ma la sua è una posizione che mette in aperto contrasto la volontà di fare del bene con la paura di renderla evidente. Da un lato, la comunità ebraica lo vede nelle odiate vesti del persecutore parassita. Dall’altro lato, tutti gli altri possono denunciarlo come un “ebreo bianco” e finire sotto la scure dei nazisti.

Sarebbe interessante chiedersi : la signora Lautmann non sente o si rifiuta di sentire la voce di un potere dispotico che l’ha messa ai margini della storia ? La sua sordità è il segno fisiologico della vecchiaia o è il frutto di una scelta perseguita con lucida decisione ? È evidente che la signora è molto sorda, ma saremmo pronti a fermarci solo a quello che ci viene restituito dalla macchina da presa se non fosse che è soprattutto cospargendo il film di tanti segni simbolici che gli autori hanno voluto imbastire un lucido attacco ad ogni forma di totalitarismo. Si prendano tre aspetti importanti nell'economia narrativa del film. Primo, le cicogne che spesso fanno capolino lungo tutta la narrazione. Il film si apre appunto con un fotogramma che ritrae tre cicogne appollaiate nel loro nido, intente ad osservare lo scorrere tranquillo delle cose cittadine. Sembrerà banale, ma è come se subito si sia voluto suggerire che il male può annidarsi ovunque, anche nelle buone intenzioni, nascere e crescere con l’imprevedibilità di una cosa che non ci si aspettava potesse rivelarsi pericolosa. Secondo, la “Torre di Babele” che sorge al centro del paese. I lavori proseguono lungo tutto il film, la torre prende forma poco alla volta, cresce col crescere della tensione emotiva, fino a sancire il dominio dispotico del pensiero unico contro ogni forma di dissenso. Fino a diventare il luogo deputato per sottomettere gli ebrei al pubblico dileggio. Terzo, i tanti bottoni assiepati negli scaffali del negozio al corso. È un caso che uno degli oggetti più evocativi all’interno della macabra iconografia nazista siano proprio i bottoni ? Ecco, tre aspetti simbolici che, a mio avviso, dimostrano (ulteriormente) quanta ricchezza di contenuti esiste dentro un film che si presenta con una veste apparentemente leggera.

Il finale è un crescendo drammaturgico che lascia senza fiato, commovente e rabbioso insieme, segno di una sorte inevitabile e indice di un orrore senza tempo. Un finale che trova il suo culmine quando l’anziana donna inizia a capire la natura dell’orrore che ha avvolto il suo “pacifico” quartiere e nell’uomo, mezzo ubriaco, inizia a prevalere più la verità della paura che il coraggio di rimanere umano nonostante tutto. Anche la tecnica cinematografica si rende artefice di questo scarto emotivo che vuole trovare e suoi sbocchi definitivi. La macchina da presa si muove con fare febbrile lungo i stretti corridoi della casa negozio, in un piano sequenza che arriva chirurgicamente al cuore della questione. Come una soggettiva che esprime ferma l’intenzione di voler guardare in faccia la morte dell’innocenza. Perché le posizioni di Tono e di Rozalie si incontrano nella comune conoscenza dei rispettivi destini. E l’esito non può che essere tragico per entrambi. Un grande film, dalla semplicità arricchente.                

 

 

 

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