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The Millionaire

Regia di Danny Boyle vedi scheda film

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La recensione su The Millionaire

di spopola
8 stelle

Finalmente Danny Boyle è ritornato grande (e questo “Slumdog Millinaire” è sicuramente il frutto più completo e maturo della sua discontinua filmografia, più ancora e “meglio” del folgorante esordio con “Piccoli omicidi fra amici” e della successiva consacrazione con lo straordinario – ma più di “testa” che di “cuore” - “Trainspotting” forse un tantino sopravvalutato, ma comunque opera fondamentale di una “tendenza” e di una condizione). Diciamo subito che - al di là della indiscussa capacità del regista di “saper girare”, di possedere cioè una invidiabile tecnica che lo rende, sotto il profilo della forma, uno dei nomi di punta (sempre e comunque anche di fronte alle opere più discutibili e furbette, e penso al riguardo non tanto all’inaccettabile compromesso modaiolo al servizio di una celebrità come “The Beach”, ma all’altrettanto “censurabile” e contorto esito di “Una vita esagerata” che è proprio, fra tutti, quello che ho meno digerito) dell’attuale panorama registico internazionale, che non è certo esaltante - quello che mi ha incantato e “trascinato” dentro le spire di questa coloratissima vicenda, è la completa “adesione emozionale” che traspare dal contesto, e che è proprio ciò che dà la necessaria “marcia in più” a questa temeraria, “azzardata” ma vittoriosa operazione che, sulla carta, proprio per la sua struttura atipica, poteva destare più di una perplessità (e i motivi anche per un insuccesso clamoroso potevano essere davvero molteplici). Indubbiamente una pellicola che - come al solito - è girata come meglio non si può (potremmo dire con i “vizi e le virtù - e naturalmente in questo caso sono di gran lunga prevalenti le seconde - che caratterizzano il suo percorso di autore anomalo e fuori dagli schemi, ma a volte troppo attento a considerare il termometro, anche sbagliando valutazioni e risultati – ed è sempre un mio privato, discutibilissimo punto di vista - di quelle che potremmo definire “le ferree regole del mercato” del successo, quasi uno “studio articolato” di marketing per organizzare e realizzare prodotti che “rispondano ai bisogni” del target a cui vorrebbero essere destinati, e che quasi mai paga davvero). Non è però questo l’aspetto che nel caso in esame fa la differenza, perché come ho già detto, bravo (anche “eccessivo” a volte) Boyle lo è sempre stato (premetto però che non ho avuto l’occasione di confrontarmi con “Sunshine”, e cioè l’opera che immediatamente precede questa sua ultima fatica, e quindi mi manca forse un tassello importante per valutare interamente la sua evoluzione prima dell’approdo funale del quale sto parlando). Ciò che questa volta è “grandioso” (eccedo in “esagerazioni”?) nel risultato conseguito (e parlo ovviamente sempre a titolo personale, anche se le reazioni del non strabocchevole pubblico con cui ho condiviso la visione mi confermerebbero che quello del “gradimento incondizionato” è un indice molto più generalizzato di quanto si potrebbe supporre o immaginare) è il coinvolgimento “sentimentale” che riesce a raggiungere, e che fa trascurare anche possibili pecche e disomogeneità disseminate intorno che una analisi organica potrebbe mettere facilmente in evidenza. Ma ha davvero importanza che tutti i tasselli vadano sempre e comunque “nel posto giusto” se poi la visione ti travolge e commuove, ti appassiona come da tempo almeno a me non accadeva più al cinema e non solo (non sono stati tempi molto felici questi per me, anche in rapporto allo schermo, ma è un discorso personale, quasi una annotazione a margine, che non riveste poi molta importanza). “The Millionaire” (come al solito “discutibilissima” e parzialmente impropria la traduzione del titolo imposta dalla distribuzione locale) è una “favola nera” con accentuati risvolti realistici, che non si sa bene come catalogare (commedia, thriller, o che altro? persino – oserei affermare – indagine sociologica e “critica di costume” che stigmatizza le storture mediatiche ben oltre il pessimismo Orwelliano). Un “azzeccato” percorso a ostacoli fra Capra e Mira Nair, le esagerazione colorate del cinema bolliwoodiano e tanti echi sottotraccia che rimandano persino alla classicità Dickensiana, fatto di incastri e di rimandi che “svolazza” e si impenna, oltre che fra i generi e le loro contaminazioni, anche utilizzando ardite similitudini temporali e geografiche che affascinano e stupiscono per la “sapienza” tutt’altro che sterile (“sterilizzata”, mi verrebbe da dire) della costruzione decisamente “virtuosistica” dell’insieme che non delude mai. Insomma, per lo meno io mi sono lasciato completamente trasportare dentro la “storia” (e non era davvero molto facile per come stavo dentro quando sono entrato in sala), un misto di aromi, musiche e sapori, che non mi aspettavo cosi intenso e strabordante, ma “misuratissimo” e necessario nel risultato (così ben cucinato da risultare assolutamente omogeneo, insomma).. Quando si sollecitano le emozioni e il sentimento come nel caso in oggetto, che c’è di meglio di lasciarsi “andare”? In fondo non siamo “critici” di mestiere e a noi non ci è chiesto di essere sempre e comunque attenti alla sintassi ad ogni costo, di sottolineare con la matita rossa ogni “imperfezione”.. e allora diamo spazio adeguato al “subbuglio” (e solo a quello) che ci muove internamente ogni immagine che ci passa davanti e concediamoci il lusso di cedere alla liceità di dover ammettere, nonostante che Boyle (e il suo “stile) non rientri fra i nostri (i “miei” intendo) “must”, che questa volta ciò che ha fatto e ha reso disponibile alla visione, ci è garbato! ci è garbato e parecchio, ha risposto in pieno alle sollecitazioni (e i bisogni) del nostro cuore e del momento, facendolo collimare proprio con la “necessità” di un approdo indubbiamente “positivista” come viene poi richiesto sempre alle favole.. e parlo ancora e sempre a titolo personale, per non creare equivoci. D’accordo… la conclusione è “iperrealista” e poco credibile nella sua “artificiosità mielosa”, ma è proprio così che “doveva essere” per differenziare, distanziandola, la “finzione” edulcorata della parabola dalla tragicità di una realtà che comunque non ci è stata risparmiata nella sua crudezza esasperata e che permane ancor più tragica con le sue implicazioni “politiche” e morali ma non solo. Il percorso è “salvifico” e romanticizzato in molti tratti, è vero: questa è la strada “pericolosamente” atipica scelta dal regista (partendo dal romanzo di Vismar Swarup che non conosco) non priva però di una sua peculiare efficacia, e vivificata dallo script di rara incisività di Simon Beaufoy, che non è elemento secondario, insieme a tutto il restante, eccellente contributo dell’apparato tecnico (la fotografia, le ambientazioni, le musiche) per il raggiungimento del risultato finale. Io il film l’ho visto ieri pomeriggio (per me una giornata “no” che aveva bisogno di una “pausa di riposo” poco ansiogena). E’ stato il commento disincantato e “divagante” di Marlucche ad invogliarmi ad andare… a stimolarmi la fantasia… ho immaginato proprio attraverso ciò che ha scritto, che avrei potuto trovare là dentro una “pausa” alle mie angosce, e uno stimolo per attivare la mia sonnacchiosa necessità di “cedere” nuovamente almeno un poco, il passo alla speranza (e qui subentrano nuovamente elementi valutativi così visceralmente privati che non sono mai completamente obiettivi, ma che devo necessariamente evidenziare, ove qualcuno si sentisse in dovere di stigmatizzare che sono stato troppo compiacente con una pellicola che è “sì”… “ma”.. e che insomma ci sono molti risultati anche in questa stagione che di gran lunga la sopravanzano). In definitiva, tutto ciò che ho espresso, semplicemente per dire che è spesso importante il tempo e il contesto di una visione a fare la differenza, e io avevo bisogno di questa “riconciliazione romantica” che preclude al “e vissero felici e contenti” proprio di quelle storie che tanto “appagavano” i bisogni di certezze della nostra infanzia, senza che nessuno si ponesse poi il problema di domandarsi cosa in effetti avrebbe potuto accadere “dopo”. Ecco… sì, mi sembra che sia proprio la chiave giusta: quella che Boyle ci ha rappresentato, è in fondo – e a suo modo -una storia d’amore e di dedizione, di quelle cioè delle quali nella grettezza della realtà attuale, si è persa la traccia e lo stampo… una dedizione… come appunto nelle favole, è persino “astrazione”, travalica (come deve essere) l’oggettività del possiible, e si trasfigura verso l’esaltazione elegiaca di un “pensiero” che è quasi ossessione amorosa. Detto tutto questo (e mi sono come al solito e me ne scuso, dilungato un po’ troppo sulle premesse, ma il lupo perde il pelo, mai il vizio) prendo ancora un po’ di spazio per tornare all’opera in esame. Sintetizzando brevemente, potrei semplicemente dire che Boyle è ritornato nuovamente a “correre” insieme ai suoi personaggi (non importa verso quale approdo “arrancano”: importante è la vitalità, l’energia, la determinazione, la volontà di mettersi in gioco e di “rischiare) e lo fa con indubbia maestria e adeguato afflato poetico. Lo sfondo è realisticamente pregnante, la “metafora” (quella del gioco a quiz) evidente (molto “diverso” comunque l’utilizzo che ne fa rispetto per esempio a “Il mio migliore amico” dì Leconte che “pretestualizzava”, ovviamente in differente modo ma non con dissimili obiettivi, la stessa “deriva”, il “diversivo” della rivincita fissata come necessità primaria che da tempo – soprattutto per la povertà del sottosviluppo non solo economico, ma anche mentale – non è più semplicemente tale, ma diventa “strumento” agognato di successo e di visibilità, tanto più se offerta dalle aberrazioni televisive come quella di “Chi vuol essere milionario?”, appunto, della quale ce ne viene offerta una quotidiana panoramica desolante anche sui nostri monitor, spudoratamente esibita dall’insipienza di un Gerry Scotti molto compreso nel ruolo e da una schiera di concorrenti che rappresentano la variegata umanità in “caduta libera”. Impossibile, per come è articolata fra rimandi e associazioni, che spazia fra passato, presente e – oserei dire - persino “futuro” fare una sintesi esaustiva e sufficientemente “rappresentativa”della storia, che è poi quella del giovane Jamal, cresciuto orfano insieme al fratello, negli orribili slum di Mumbay, della sua formazione sentimentale e di vita e del suo “riscatto” non solo morale, attraverso un travagliato percorso dai tormentati meandri della sua infanzia fra i bassifondi della povertà, fino al lieto fine di “una vittoria annunciata” con la risposta “azzeccata” all’ultima domanda del quiz (che tutti avevamo già immaginato fin dall’inizio quale “doveva essere”, perché il film è molto esplicito in questo nel disseminare “tracce” evidenti che ne connotano proprio la sua dimensione “favolistica”) e al suo ricongiungimento “amoroso”…, un percorso che passa frequentemente dalla tragedia al paradosso, dal riso la pianto, dal dramma alla commedia, in un succedersi ininterrotto di situazioni e coincidenze, mai però oleograficamente conformi, edulcorate e consolatori e (e nemmeno schiave di eccessi patetici quali tributi da pagare a un “buonismo” un po’ accomodante. Potremmo definirlo l’emblema di un riscatto? Può darsi. Io preferisco restare ancorato alla dimensione “avventurosa” dell’insieme, fra mutamenti di fortune, e “destini” con i loro sincronismi (non solo temporali) che diventano a volte fatali coincidenze. Un viaggio che è anche un inno alla vita, visionario e rabbioso, fra violenza (mai gratuitamente esibita) e povertà, e un lieto fine “esuberante” e colorato (che si prolunga proprio sui titoli di coda analogamente necessari e “imperdibili”), che potrei definire di analoga, eccellente fattura che ben si sposa anche nel contrasto evidente, con tutto ciò che abbiamo visto prima. Dimenticavo! Come al solito ottimo anche il contributo degli attori (o meglio dei corpi e delle facce scelte, perché fra tutti, il solo Dev Patel è l’unico “professionista” scelto a Londra, tutti gli altri provengono dall’India e non mi è dato quale è la loro storia artistica in quella terra).

Sulla trama

un puzle straordinario (ottimamente scritto e realizzato con perizia adeguata). La "sroeia di un amore" è che è anche "romanzo di formazione e di riscatto.

Sulla colonna sonora

perfettamente in sintonia

Su Dev Patel

Intenso e suggestivo.

Su Danny Boyle

Ottima e stimolante... la prova più matura dell'intera suo carriera spesso un sempre all'apice e un pò altalenante

Su Loveleen Tandan

Indispensabile (immagino) il suo contributo per la parte indiana (intendo le modalità bolliwoodiane" che intridono la pellicola

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