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Diamond 13

Regia di Gilles Béhat vedi scheda film

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La recensione su Diamond 13

di ROTOTOM
8 stelle

Bellissimo polar Diamond 13. La Francia ha questa malattia: il cinema di genere, quello fatto a prescindere dalle mode del momento, dell’attualità e i cui personaggi agiscono obbedendo a regole fisse e codici morali svincolati da una plausibilità realistica, senza tuttavia patire il riciclo tanto caro al cinema seriale moderno, anzi arricchendone la mitologia con una freschezza narrativa che non trova corrispondenza in nessun altro cinema. E’ il polar soprattutto a esercitare questa erosione dell’animo umano, personaggi svuotati dall’interno che si muovono solo grazie alla meccanica del dolore guardando in faccia un destino che per loro è scritto e ben visibile. Genere che pianta le sue radici nel terreno seminato da Jean Pierre Melville e dai suoi samurai disillusi, nei suoi flic e nei suoi personaggi senza nome apparsi sullo schermo negli anni 60/70 e che in questo ultimo decennio sono stati oggetto di una poderosa rigenerazione stilistica.
Citando a caso Jean Francoise Richet e il suo dittico Nemico pubblico n. 1, la trilogia di Olivier Marchal di cui 36 Quai des Orfèvres è tutt’ora il punto più alto, Jaqeus Audiard con Sulle mie labbra prima e con l’imminente Il profeta sono solo alcuni degli esempi di un genere di cinema che in Italia non si fa (più).
 Gilles Béhat è il regista di Diamond 13, tratto dal romanzo dell’ex flic Huges Pagan autore dei romanzi che hanno originato i polar di Marchal ex flic pure lui, che in questo film recita.
Diamond 13 è un magma ribollente, notturno e feroce animato da facce attonite, corpi che sono un tutt’uno con le architetture stanche ma nonostante tutto ancora erette della città che sembra sempre in procinto di collassare su se stessa, piegata dalla corruzione, dalla doppiezza, dalla mancanza totale di un codice morale comune al quale aggrapparsi. Gérard Depardieu è Mat  poliziotto con quel suo sguardo da bracco stanco, l’impermeabile informe e la disillusione come compagna di vita che sembra contagiare gli ambienti in cui risiede. O forse è il contrario, o forse sono la stessa cosa. Olivier Marchal è Franck che porta nella finzione la consapevolezza stanca del mestiere di poliziotto, negli occhi la morte come unica certezza della vita. Asia Argento che lontana dalle caratterizzazioni trash sa essere una dark lady convincente. Aurélien Recoing gangster che suda ghiaccio direttamente dall’anima ibernata  in un male assoluto.
I soldi, questi dannati soldi che chissà che fine fanno in mano a chissà chi, soldi che sono solo un pretesto per sganciare i meccanismi del polar, fare scattare il cane di una pistola, versare un bourbon, salvare una vita e sacrificarne un’altra, trovarsi sempre nel posto sbagliato al momento giusto.
Dopo tutto a chi frega qualcosa se le cose vanno come devono andare? Gli antieroi del polar sono di passaggio e portano sulle spalle curve il macigno di una consapevolezza che solo l’universo spazio temporale che abitano può mostrare. Un tempo privato ed esclusivo fatto di ombre e creature notturne, un mondo alieno che è la manifestazione metafisica del dolore che si trascinano dietro nel compiere il loro dovere giustificati in questo dalle azioni commesse al di là del loro potere. Legge, regole, amore, morte, morale sono solo parole dalla valenza relativa che sferzano personaggi assoluti, pietrificati nei loro limiti. Luminosi come fari nel mare eternamente in tempesta.
 

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