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Il vecchio e il nuovo

Regia di Sergei M. Eisenstein, Grigoriy Aleksandrov vedi scheda film

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La recensione su Il vecchio e il nuovo

di Texano98
8 stelle

"Voglio odorare il sapore celeste del ferro, voglio vedere il profumo sanguigno del fuoco: esiste lo so!" / CCCP - A ja ljublju SSSR

 

Gli occhi si schiudono sul bianco e nero del film: tre vertiginose inquadrature mettono in scena la pianura russa. Il secondo scorcio è inizialmente cupo, poi l'allontanarsi di una nuvola rivela i raggi taglienti del sole. Con questa forza mansueta si apre La linea generale, crogiuolo di alcuni dei tesori del genio sovietico Sergej M. Ejzenstejn. Oggi il progresso scivola nel regresso, ma non è così per il regista russo, non è così per l'Unione Sovietica. Si avverte come inesorabile, attraverso i fili del film, l'egida del Partito Comunista, il suo guidare la società tracciando un solco, così come fa l'aratro passando sui campi. E' estati di partito? Sì: è estasi di partito, solo con qualche storcimento di baffo(ne) - ad esempio quando l'autore insinua una critica alla macchina burocratica dello stato. Il regista inserisce perfino una manciata di tenerezza - inedita e tagliente - sparsa dal vento che ha infuocato tempi lontani, su terre oggi dominate da un altro uomo. Non più la creatura sognata da Ejzenstejn, bensì quella prona del terzo millennio, un uomo non più chino sulla terra ma sopra se stesso. In quest'opera l'essere umano vive grazie al palpitare del bestiame, in seguito lo fa in simbiosi con il pulsare dei trattori: egli non lo fa per l'ossessione che aleggia in Tetsuo di Shinya Tsukamoto, ma per il bisogno di mangiare, di bere, infine per godersi il tempo libero che ha guadagnato grazie alle lotte. L'uomo: ne La linea generale egli è un grande corpo in tumulto, l'insieme di volti magri, ombreggiati ed espressionisti; egli è al servizio del cinema, lo strumento industriale del sapere, forgiatore seriale di anime. Tutto questo appare chiaro come l'acqua, nel cinema di propaganda sovietico, con quell'onestà che si può avere solo sotto permesso di un Politburo e magari con il controllo pressante dell'NKVD; è un cinema cristallino e votato all'elevazione - al di là della politica, se vogliamo - e non al decadimento. In poche parole, eccoci agli antipodi del cinema all'epoca del capitalismo globalizzato - altro che fine delle ideologie! - dove il lasciapassare non giunge più da una commissione suprema ma bensì dal mercato, il quale si presenta alle masse come un'entità formalmente libera, volpino com'è, eppure con le proprie leggi intrinseche finisce sempre per fare politica: quale immensa disonestà!
Ciò che colpisce, inoltre, dell'uomo plasmato dal cineasta russo, è il suo parlarne visceralmente - raffigurandolo solo, lontano dallo stato, costretto alla vita collettiva per non spegnersi - utilizzando una messa in scena astratta e surreale, insomma quell'armamentario che parrebbe all'opposto del materialismo marxista: campi e controcampi esasperati nel limitare di pochi secondi, corpi come lame che tracciano linee sulla pellicola. Perfino le didascalie esplodono fra un'inquadratura e l'altra in caratteri di diversa grandezza e fattura. Ejzenstejn padroneggia il mezzo e forgia un'arma, con meditabonda frenesia, inarrivabile per l'inedito connubio fra metafisicità della forma e concretezza del contenuto. Di minuto in minuto siamo dinanzi a perle del cinema tutto: si pensi a scene come quella del "condensatore" del latte, l'arrivo del primo trattore nel colchoz, l'incursione dei contadini nei palazzi del potere sovietico, laddove l'impetuosità degli uomini della campagna esplode contro i burocrati di partito - Ejzenstejn utilizza proprio sequenze di esplosioni, non è una metafora. A queste latitudini anche l'utilizzo del simbolismo più popolare si fa arte. La linea generale ha la capacità, come tutti gli altri capolavori di Ejzenstejn, di disaminare in ogni inquadratura il movimento post-rivoluzionario, i suoi sentimenti e le sue amarezze, sia che egli effettivamente ne parli sia che egli ne taccia. Questo tocco magico e irrazionale, ironia della sorte, ha colto molte delle opere del primo stato marxista al mondo.

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