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The Wrestler

Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film

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La recensione su The Wrestler

di spopola
8 stelle

Ho sempre considerato il wrestling più che uno sport, una aberrazione. Ed ho “rischiato” per questo, poco interessato come sono all’argomento (quasi “schifato” per le implicazioni a mio avviso anche di carattere sociale che stanno dietro ad esibizioni che sono spesso “giochi” al massacro, truccati e addomesticati quanto si vuole, ma comunque esempi raccapriccianti che stanno facendo scuola “comportamentale” proprio nella vita di tutti giorni, come stanno a dimostrarlo chiaramente persino gli scontri di “wrestling verbale” con i quali ogni tanto dobbiamo farei i conti anche qui sul sito di Film tv) di mancare all’appuntamento in sala con l’ultima fatica di Arnofsky.
Indiscutibilmente (e parlo ancora della pratica pseudo-sportiva di riferimento, non del film) ognuno è libero di scegliere la strada che più gli è congeniale…  è legittimato dunque anche a disgregare il proprio corpo  per raggiungere una discutibile e illusoria “fama” che poi pagherà a caro prezzo… fa sul suo e non commette nessun crimine o misfatto, ci mancherebbe!!! ma è azzardato allora dire almeno che per me il wrestling è una scuola di pensiero da avversare? Forse sono troppo categorico al riguardo, ma soprattutto quando vedo l’interesse che suscita particolarmente nei ragazzi, mi sento fortemente a disagio ed ho pesanti pulsioni di “rigetto”. Devo quindi confessare che se non ci fosse stata l’eco della performance di Rourke e i numerosi riconoscimenti anche come incetta di premi che in un certo senso (pur se non sempre è così vero e certo) mi confermavano la bontà dell’operazione (che potevo “fidarmi” insomma, perché c’era anche qualcos’altro) mi sarei ben guardato dallo scendere in pista per confrontarmi con una pellicola che forse in qualche modo potevo anche immaginare – a torto – pericolosa, e sarebbe stato un peccato, perché avrei così perso un’occasione davvero importante per “confrontarmi” (in maniera riflessiva e anche amara, ma indubbiamente positiva) con le emozioni profonde e dolorose che fa emergere prepotenti. E il regista, dopo la deludente prova de “L’albero della vita” (dove anche per le vicissitudini produttive, aveva finito per perdere la tramontana disperdendosi in ambizioni fortemente imbarazzanti), è bravissimo, grazie a un appropriato utilizzo persino del “posizionamento” fisico della macchina da presa, oltre che dei “movimenti” e degli “stacchi” a “definire” come meglio non sarebbe possibile fare (con “appropriata” umiltà, mi viene da dire, anche se qualcosa del suo essere “autore” rimane, come la consistenza un po’ sgranata della pellicola, per esempio che qui comunque non “guasta”, diventa persino “strumento” di avvicinamento critico) lo straordinario, introspettivo ritratto “di una vita a perdere”, il sofferto declino insomma di un uomo che non sa (e non vuole) rassegnarsi, “coraggiosamente” esposta con pochissima enfasi della retorica (che solo in alcuni momenti – e sono peccati venali – sembra infiltrarsi fra le pieghe per essere subito dopo ributtata alle ortiche), lasciando una volta tanto da parte tutta la spesso delirante pretenziosità artificiosa un pò new age del suo precedente percorso artistico, (i “vizi” e le “virtù” insomma che hanno fatto “odiare o apprezzare” - e io sono fra questi - i primi due capitoli della sua filmografia, in virtù di quella “speciale e insolita” intensità furiosa che li contraddistingueva). Per tornare al film in questione, basta osservare la straordinaria intuizione con cui ci viene presentato all’inizio (sempre di spalle per “ritardare” l’impatto col volto) questo “eroe” ormai disperato e perduto, il “pedinamento” costante che ne fa, spesso con la cinepresa a mano, che porta lo spettatore ad immedesimarsi proprio “in diretta” nei suoi percorsi, ad “incrociarlo” davvero con la sua andatura massiccia e appesantita, ad annusare l’odore acre del suo sudore, per comprendere che questa volta Arnofsky ha trovato “la giusta mediazione” per rappresentare davvero l’anima, oltre che la carne del “personaggio”, e che la sua “partecipazione” al progetto è sentita e radicata, non una scommessa, ma una vera e propria “necessità narrativa”.
Protagonista d’eccezione è indubitabilmente Mickey Rourke capace di infondere alla pellicola una linfa vitale che la fa risplendere di una luce intensa e vibrante, davvero insolita. Perché la sua è molto di più (di diverso, direi) di una straordinaria interpretazione (sarebbe davvero inappropriato definirla così.. anche perché io continuo a nutrire seri dubbi – nonostante la riuscitissima prova di questa eccezionale performance - sulle sue “qualità” intrinseche di attore). Si tratta infatti a mio avviso di una “immersione” totale nel personaggio che diventa “immedesimazione”, traslata quanto si vuole, ma fortemente empatica, persino impressionante, perché capace di “raccontare” e rappresentare anche se stesso e la sua “privata” odissea.
Ed è certamente la “simbiosi” perfetta fra attore e personaggio, la ragione per la quale nessuno meglio di Mickey Rourke, poteva rendere così viva una figura di questa “statura” e dimensioni. Rourke allora è Randy “The Ram” Robinson, non lo interpreta, lo “rivive” in prima persona.. con il suo volto tumefatto e segnato irrimediabilmente (devastato) dai pugni e dagli interventi “ricostruttivi” di plastica facciale, con il suo fisico possente gonfiato a dismisura dagli eccessi e – soprattutto - dagli steroidi presi in quantità industriale, con le sue cicatrici, con la capigliatura ossigenata e il corpo sfregiato dentro e fuori.
E’ eccessivo dire insomma che è proprio Rourke il film stesso, e che al di la dei meriti di Arnofsky, è lui a renderlo se non proprio “memorabile”, almeno “grandioso”?. Osserviamo la rappresentazione “cristologia” della parabola discendente di Randy "The Ram" Robinson , addentriamoci dentro il suo fisico che cede, la carne sfatta, il viso tumefatto, il cuore ballerino, la mente ormai confusa per l’uso di molteplici sostanze dopanti. Seguiamolo nel suo percorso esistenziale che è al tempo stesso anche l’acquisizione della presa di coscienza di un “fallimento” (il rapporto con la figlia compromesso, la speranza di vivere con una donna “speciale” praticamente impossibile da realizzarsi), e la consapevole – terribile – certezza di non avere nessuno, se non l’ormai l’illusorio rapporto con il suo pubblico e la gloria che fu (recuperato in un ultimo scatto di sconfortato furore in un finale “sospeso” e per questo davvero “magnifico”), con cui affrontare e dividere la sua incolmabile solitudine… di non avere speranza insomma, e “di non crederci più”.
Non mi soffermo a riepilogare la storia (sarebbe a questo punto superfluo) . Rimando al riguardo a tutto quanto mi precede, poiché “The wrestling” è uno dei titoli indubbiamente - e a ragione – più dibattuti della stagione: se la storia, come è chiaramente comprensibile, non presenta in pratica spunti di grande originalità (così conforme e pedissequa a centinai di altri similari percorsi) è la sincerità dell’impatto, la descrizione impietosa dell’ambiente, a fare la differenza, l’accurata efficacia con la quale vengono rappresentate con penetrante acutezza queste “esistenze ai margini”, il dolore che trasuda da quell’incedere incerto e un po’ desolato, quell’assistere impotenti allo sfacelo irreversibile del proprio strumento di lavoro (il fisico e la forza).. l’impotenza grintosa di una impossibile rivalsa (una scommessa rischiosa che rappresenta al tempo stesso il coronamento dei propri sogni e la contemporanea ammissione di un fallimento) che diventa il grido lacerato di uno scoramento rabbioso che accompagna quel “salto nel vuoto” che finisce nel buio e nel nulla (forse davvero la “morte”?) sul quale si innesta potente a strappare nuovi palpiti e pulsioni, la voce e la musicae di Springsteen e della sua straordinaria canzone scippata dell’Oscar. La parabola dell’uomo, si riflette allora con prepotenza travalicando lo schermo per ritornare ad essere “vita” reale...
 Accanto a Rourke e al suo “coraggio”, da ricordare una splendente (nel corpo e nella resa) Marisa Tomei (qui alle prese con un altro personaggio “consapevolmente insicuro”, fragile e seducente) che, come già in “Onora il padre e la madre”, ci delizia, oltre che con le se qualità introspettive, anche con un fisico mozzafiato nonostante l’età, che non teme di esibire in tutta la sua prepotente bellezza con generosa disponibilità. Evan Rachel Wood è la figlia, la cartina di tornasole che renderà palese all’uomo la sua impossibilità di accettare una normalità , un lavoro e una vita come tanti oltre che le sempre rifuggite responsabilità familiari. La colonna sonora è poi languidamente preziosa, martellante e ossessiva con la sua carrellata infinita di memorabili brani anni ‘80 che “invadono” cervello e memoria, creando il necessario pathos dell’impatto emozionale con le vicende narrate.

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