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Achille e la tartaruga

Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film

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Marcello del Campo

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Achille e la tartaruga

di Marcello del Campo
8 stelle

 
Portrait of an Artist as Achilles, questo film di Takeshi Beat chiude la trilogia autoreferenziale, narcisistica, felliniana, iniziata dopo l’irridente Zatoichi (2002).
Fatta piazza pulita del mito nippon con l’avventurosa vita del Simplicissimus Zatoichi alla maniera di Grimmelshausen più che di Cervantes (non dimentichiamo il ‘comico’ nel cinema di Kitano), il regista compie una meditazione sull’arte e sull’artista che comincia con Takeshis’ (2005), prosegue con Glory To the Filmaker!  (2007) e finisce con Achilles and the Tortoise (2008).
La trilogia, apparentemente confusa, velleitaria, ma densa di momenti memorabili, trova nell’ultima pala del trittico il filo conduttore di una meditazione sul rapporto arte-vita che raramente ha dato nel cinema esiti così intellettualmente elevati, ad eccezione di cineasti come Raoul Ruiz, Straub-Huillet o nelle accidentali incursioni scorsesiane di New York Stories e, in omaggio ad Akira Kurosawa, in Dream.
La premessa del film è occidentale, canonica, platonica: l’arte è imitazione della vita, la vita è il riflesso opaco del mondo ideale.
Si può discutere, e a lungo, se questa concezione dell’arte ci appaghi, ma Kitano mostra di essere un idealista in corsa per il raggiungimento di un obiettivo che, come l’Achille di Zenone, è sempre una lunghezza indietro rispetto alla corsa della tartaruga.  Ma Kitano non ambisce alla risoluzione dell’aporia, gli preme porre l’attenzione sulla natura aleatoria del successo di un artista e come a questo si arrivi.
Machisu Kuramochi (Yurei Yanagi - Machisu adolescente) ha mostrato, fin dalla tenera infanzia, un’irrefrenabile propensione alla pittura. A scuola ci va solo per ‘scaldare il banco’ o meglio, per distrarsi totalmente dalle lezioni e immergersi nel suo mondo di piccolo artista. Disegna, mentre gli allievi seguono le lezioni. A lui non interessano i fregi sulla lavagna, le frazioni matematiche non hanno nessun appeal, meglio il mondo esterno, la vita fuori dalle finestre dell’aula, le nuvole nel cielo. Machisu porta sul capo un basco d’artista che lo separa dal mondo infantile, il basco di Picasso è il segno della frattura tra lui e gli altri.  Figlio di un ricco banchiere, Tomisuke Kuramochi (Ren Osugi), collezionista, mecenate e amico di un artista di successo (interpretato da Nao Omori, anche in Dolls), Machisu gode del vantaggio di agire in piena libertà a scuola e dello svantaggio di subire il giudizio estetico di Omori che incomberà sulla sua vita fino all’età adulta: l’artista di successo rappresenta, in veste di critico, l’ostacolo perenne all’affermazione di Machisu nel mercificato mondo dell’arte; Omori, dall’alto della sua iattanza di artista di successo, rappresenta la tartaruga del paradosso. Omori riconosce nei disegni naif del piccolo Machisu le doti che potrebbero costituire una futura minaccia al suo primato e mentre finge di spronarlo a migliorare, lo rende succubo del suo giudizio immancabilmente negativo, ponendolo a confronto, man mano che Machisu avanza con l’età, con gli artisti supremi dell’Impressionismo, Espressionismo, Pointillisme, Art Brut, Pop Art, Graffiti, Installazioni, ecc.
La morte del padre è per Machisu il primo tallone di Achille: privato delle ricchezze e della possibilità di agire in piena libertà, non può dipingere per diletto, deve farlo per necessità. Necessità che diventa più stringente dopo cha la madre, prima di suicidarsi lo ha affidato alle cure della sorella e del bieco cognato, un contadino rozzo e violento che rende difficile la vita del giovane Achille.
 
Film schizoide come il personaggio di Machisu, Achilles and the Tortoise si può dividere in due parti.
 
La prima parte (l’infanzia e l’adolescenza di Machisu) è un trattato sull’incantamento: i primi passi spontanei dell’artista, la libertà creativa (bellissima la scena in cui il piccolo pittore si ferma davanti a un treno per dipingerlo, senza che il conducente si adiri, anzi affascinato, attende che l’opera sia terminata). Quasi dickensiane, seguono le vicende tristi dell’orfanezza, mitigate dall’incontro con un artista-contadino bislacco (che muore schiacciato da un treno che non si lascia incantare da lui) e dall’amore di Mari (Eri Tokunaga), la donna che dividerà con Machisu, dopo averlo sposato, tutte le vicissitudini fino alla terza età.
Una prima parte, dunque, elegiaca, in cui domina il silenzio (come nei film di Kim Ki Duk) e la musica per piano di Yuki Kajiura.
 
La seconda parte è marcata dalla presenza di Takeshi Beat che interpreta Machisu, arrivato alla mezza età che, alle spalle l’insistenza di Omori (divenuto vecchio anche lui, ma sempre incombente), si cimenta con tutte le correnti dell’arte dal Primo Novecento ai giorni nostri. Il film si accende dei toni ilari della commedia. Kitano, sempre con il basco sul capo, continua imperterrito l’inseguimento della tartaruga (la vendita dei quadri), ostacolato nella sua corsa dall’immanente critico-artista. Machisu consulta gli scritti e le opere di Degas, Mirò, Matisse, Klee, Kandinskij e li imita, dipinge quadri che inevitabilmente Omori boccia e svende ad acquirenti impropri per luoghi improbabili, bar, ristoranti. Machisu insiste, deve affrontare l’arte contemporanea: aiutato dalla consorte, è la volta di copiare Haring e Basquiat, dipingere muri, saracinesche, litigare con i proprietari, ridipingere le facciate. Machisu è ormai un clown, Omori non dà tregua, urgono le installazioni, “l’arte deve coincidere con la morte”, dice Omori. La giovane figlia della coppia Machisu-Mari si vergogna dei suoi genitori, non può andare a scuola, ridono di lei, abbandona gli studi, non le resta che fare la puttana e, quando, spinta dalla disperazione, si suicida, Machisu segue il consiglio di Omori e (l’arte deve essere vicina alla morte), passa il rossetto per fare della ragazza morta ‘un’opera d’arte’.
Machisu è impazzito, il mondo dell’arte è un manicomio, ci comunica Beat Takeshi, Achille non può raggiungere la tartaruga perché l’arte non esiste, è una grande truffa.
L’autoanalisi di Kitano è terminata: ora può apprestarsi a dirigere The Outrage.
 
Prendere sotto gamba Achille e la tartaruga sarebbe un errore imperdonabile verso un cineasta come Kitano cui il 10 marzo dell’anno scorso la Fondation Cartier di Parigi ha dedicato una mostra intitolata “Gosse de peintre” che è durata fino al 12 settembre: l’allestimento comprendeva molte opere che Beat Takeshi mostra nel film (“Ho inserito i miei quadri per risparmiare sui costi di produzione”, ha detto ironicamente). Giova aggiungere che raramente nel cinema si è assistito a un corpo a corpo con l’arte come in questo difficile, eppure riconoscibile film di Kitano che, in una sequenza apparentemente divertente rifà il verso al Nick Nolte pollockiano dell’episodio di Scorsese di New York Stories. Machisu, prima di arrivare al ‘seppuku artistico’, mostra i giovani dell’accademia di arte che ‘vogliono ‘fare’ la pittura informale’, schiantandosi contro una parete con la bicicletta e rovesciando secchiate di colore; qualcuno, più audace, prova con un automobile e si fracassa il cranio. L’amore per l’arte, portato al parossismo è un abbraccio mortale, né ci rassicura il finale charlottiano.
Kitano ha detto: “La televisione mi garantisce danaro e fama sufficienti per fare il regista e l’artista. Se vivessi solo con il cinema e l’arte non potrei mangiare.” 
Kitano, molto coraggiosamente, si espone in una mise en abyme che non ha antecedenti e temo neppure successori.
 
 
 

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