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Il papà di Giovanna

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Il papà di Giovanna

di ROTOTOM
8 stelle

I portici di Bologna e la fine negli occhi della gente. Il colore seppia dei ricordi che si slabbrano dai bordi per poi irraggiarsi come ragnatele verso il centro, fino a che non rimane solo il ricordo di qualcosa che non ci sarebbe dovuto sfuggire. La follia e l’amore. La follia dell’amore e la paura di entrambi. Un Avati così erano anni che non si vedeva, così premuroso e misurato nel trattare la materia filmica, dopo averla covata per anni, ripensata e impastata. Così misurato dal tenere lontano la retorica storico-revisionista del periodo storico, quanto il pericolo di sciatteria recitativa dei suoi ultimi film. La follia del fascismo è lo sfondo dai grandiosi eventi che muterà per sempre la vita di milioni di persone, sfondo sul quale svolgono la loro piccola vita di sopravvivenza i personaggi del film. Michele Casali (Silvio Orlando), Delia Casali (Francesca Neri), Giovanna Casali (Alba Rohrwacher). L’amore cieco: quello del padre per una figlia, desiderata e idealizzata al di là di qualsiasi evidenza. Nel suo istinto di protezione Michele non si accorge dei disagi crescenti della ragazzina, della follia che monta e che esonda nell’omicidio e si cura di lei con l’ottusa determinazione di chi sente sulle spalle tutto il peso della responsabilità della creazione. L’amore folle: quello di Giovanna per il suo amato, anch’egli idealizzato, oppresso e incalzato. Incapace di assorbire le frustrazioni adolescenziali, non preparata ad affrontare la vita, Giovanna si rifugia in un mondo privato, fatto di menzogne e barriere psicologiche contro la verità del mondo. L’amore interessato: quello di Delia per il marito, bellissima donna lei, piccolo uomo, sconfitto e poco attraente lui. Ma è la miseria a farli incontrare, la vita e un po’ di calore per un piatto di minestra e un tetto. Uno scambio che visto in confronto al nulla è del tutto plausibile. L’amore e l’invidia: quello che nutre Giovanna verso la madre. Un continuo, doloroso confronto fatto di sguardi e gesti, di ovvietà silenti urlate nella penombra della misera casa, teatro di innumerevoli tensioni. L’eleganza naturale, i lineamenti attraenti, la conoscenza del mondo maschile filtrati dagli occhi di Delia sul cui corpo ha sentito scivolare a sua volta migliaia di occhi, soverchia l’ingobbita postura della figlia, i tratti incerti dell’ adolescenziale acerba promessa di un viso anonimo, lo sguardo sfuggente che non ha mai avvertito il desiderio negli occhi altrui. L’amore nascosto: pudicamente soppresso, soffocato dagli eventi di Delia per Sergio Ghia, amico e vicino di casa, poliziotto ambiguo, un sorprendente Ezio Greggio, qui alla sua prima prova drammatica. Avati dipinge con grazia e compostezza classica una vicenda triste, vera, estrapolata dalla nostra storia nella quale riconosciamo, grazie al grande lavoro di ricostruzione scenografica dell’epoca fascista, molto attenta ai particolari (quei particolari che negli ultimi film poco ispirati rendevano la messa in scena poco curata, povera di ricerca) , quelle ambientazioni spoglie delle foto ricordo dei nostri nonni, quelle pose incerte tra il cerimonioso e la condanna a morte, quegli sguardi che fingono più che possono felicità all’ombra di una tragedia spaventosa e che delegano alle immagini il loro ricordo futuro. La sceneggiatura dello stesso Avati è priva di retorica e ha il grande pregio di non sostituirsi alle immagini ma supporta una regia estremamente pulita che si prende il tempo di narrare senza forzature ne’ didascalismi inutili. Come nel suo capolavoro “La casa dalle finestre che ridono”, Pupi Avati torna ad occuparsi della follia, suo vecchio amore, restando in bilico su un registro neutro, semplicemente racconta una storia profondamente umana e dolorosa, senza scadere nel pietismo per accaparrarsi le lacrime degli spettatori, nè per esprimere alcun giudizio o denuncia su una possibile tesi. Nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia, anticamera dell’inferno e condanna perpetua all’oblio si trova splendidamente a proprio agio, dipingendo un quadro di infelicità assoluta con garbo e rispetto ma anche instillando la malata sensazione del perpetrarsi di una clamorosa ingiustizia . Giovanna nell’ospedale si sente finalmente la più bella, la più elegante, rinchiusa nel suo mondo protetto trova quella felicità che il mondo “normale” avviato alla follia distruttiva della guerra, le aveva negato. In questo macro mondo, Silvio Orlando (vincitore a Venezia 2008 della coppa Volpi come miglior attore) piccolo e dallo sguardo triste e furbo come un furetto, giganteggia spandendo umanità e dolore a piene mani, cerca di tenere insieme il suo, di mondo anche a costo di perderne qualche pezzo. La moglie ad esempio, “consegnata” all’amico del quale sa essere segretamente innamorata. Nelle campagne della bassa reggiana, luogo dell’esilio volontario di Michele per accudire la figlia, la moglie Delia dopo la sua ultima visita si avvia verso il torpedone che la riporterà in città. Ma non va, fugge letteralmente. Negli occhi il terrore di una vita di miseria e sacrificio che non è disposta ad affrontare. Tutto questo trattato senza dire una parola, una scena secca, tagliente e drammatica. Una scena di grande cinema che delega alle immagini il senso delle emozioni che intende trasmettere. E il finale, come un simbolo catartico, riparte proprio da un cinema, con le immagini di speranza della gente che finita la guerra non ha più paura a ritrovarsi in luoghi pubblici, le immagini sono i sogni di un futuro più umano nel quale anche la follia può essere se non vinta, almeno serenamente accettata.

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