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Wolfman

Regia di Joe Johnston vedi scheda film

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La recensione su Wolfman

di scapigliato
9 stelle

Non è un totale fallimento l’operazione di ressurrezione dell’archetipo cinematografico dell’Uomo Lupo basato proprio sulla sceneggiatura di Curt Siodmark a base del famoso The Wolf Man di Waggner con Lon Chaney Jr. Sicuramente l’horror main-stream è in caduta libera da diversi anni, da quando Underworld ne ha condizionato l’estetica e l’essenza narrativa fatta di azioni muscolari, magniloquenza della messa in scena, virtuosismi di macchina, iperazioni digitali ereditate dal fenomeno Matrix, grandi scene di battaglia fini a se stesse e un conseguente livellamento dell’anima della storia, della materia del discorso e della performazione del supporto umano. Film come La Leggenda degli Uomini Straordinari, Van Helsing, La Mummia, Resident Evil, Sherlock Holmes, Dorian Gray e forse anche il From Hell dei Fratelli Wachowski riprendono i miti della letteratura e dell’immaginario nero - quasi tutti british - senza curarsi lontanamente del fascino evocativo del pro-filmico, scordandosi di colpo le lezioni dei maestri dell’espressionimo e degli avanguardisti-artigiani dei ’60-70. Usando il mito solo come pretesto e rattoppando il “cadavere” del testo filmico con ipertesti fracassoni, ridondanti, sterili e senza anima. Il film di Joe Johnston va comunque in questa direzione, forse più per volere dei miopi produttori, forse anche per l’attore stesso Benicio Del Toro che rispedì a casa il primo regista Mark Romanek iniziando una catena di rallentamenti e snaturamenti vari che hanno sfilacciato il prodotto finale. Joe Johnston non è un pessimo regista. I suoi film all’attivo parlano di un “professional” di buona razza, ma questo The Wolfman è stato spersonalizzato durante i suoi ritardi da non riuscire nell’impresa.

All’inizio il film è davvero bruttino. L’estetica videoludica oggi purtroppo imperante - e tutti gli avataristi, matrixisti e affini facciano il mea culpa - prevede una standardizzazione del prodotto audiovisivo, costretto anche dai codici del mercato che annullano ogni diversità a favore di un prodotto più gestibile ed omologato: carrellate pompose per inquadrare la grandezza del set o della ricostruzione digitale, un montaggio più fluido, una fotografia piena di sfumature cromatiche, un’insopportabile aderenza ai costumi storici, un ritmo narrativo disossato senza più il rigore di dialoghi e scene plastiche - vedetevi Tarantino per intenderci - che danno la nervatura giusta, unica e impareggiabile a qualsiasi storia raccontata per immagini. Già, le immagini. Un film gioca soprattutto su questo, ma l’immagine ipervirtuosa ereditata dall’estetica dei videogiochi non è più l’immagine-altra della rappresentazione artistica, bensì un’immagine sterilizzata, ipercodificata, prosciugata di ogni personalità creativa. L’inizio di The Wolfman è arrabbattato, veloce, videoclipparo; non ci concede lo stupore e l’evocazione che una storia di questo tipo richiederebbe. Però il film si riprende già durante la sua prima metà. L’attacco al campo degli zingari è gustosissimo. Un fiume di sangue e frattaglie. Corpi mutilati ovunque. La furia omicida della bestia colpisce come mai prima una moltitudine di personaggi nello stesso fatale momento. E non è un caso isolato. Tutti gli attacchi dell’uomo lupo prevedono una carneficina senza precedenti. Questi ciechi massacri sono l’elemento nuovo e determinante di questo remake: il campo degli zingari, la battuta di caccia, la dimostrazione al manicomio, l’attacco al tram fino allo scontro finale superano i film precedenti per ferocia, indistinzione nella scelta delle vittime, soluzione visiva - tutto è mostrato - e infine una violenza trascinante: quei cristiani coi forconi, quei poliziotti armati fino ai denti, quei medici sadici, quei popolani ammazzastranieri sono forse meno mostri del “mostro”? Riflessione tutta moderna, sia europea che americana, sullo stato di percezione del diverso e della legittimità della gente cosidetta perbene di poter legiferare o pontificare sulla diversità, costringendola, castrandola, infine uccidendola in nome di dio. Ma il film chiaramente non è uno di quei vecchi horror politici di una volta, non glielo avrebbero permesso, ma che le premesse fossero queste lo conferma il ruolo di produttore delo stesso Del Toro. Anche l’anflatto erotico è circoscritto ad un’unica scena in cui all’uomo Del Toro arrivano i primi impulsi istintuali del lupo. L’animalità è difatti presentissima nei corredi narrativi di tutto il film: dagli animali imbalsamati, suggerimenti di mortuarietà ferina, agli animali digitalizzati che fanno tanto ridere come l’orso ballerino e il cervo esca (averli veri era impossibile?). In questo senso va anche la prima trasformazione in uomo lupo che, oltre ad essere tecnicamente molto bella ed efficace e per nulla invasiva - il trucco è davvero il migliore della filmografia licantropica, eccezion fatta per il bel prototipo di Henry Hull - sembra contenere nel suo iconotema l’emersione della bestia come liberazione dell’uomo. Infatti il Lawrence Talbot di Del Toro in preda ai primi spasmi della mutazione sale a carponi e non senza difficoltà la lunga scala di pietra che dalla cripta cimiteriale porta in superficie. Ecco che l’uomo-costretto sale, emerge, si libera dall’oscurantismo attraverso la bestia che è in lui. Che il film stia dalla parte dell’uomo lupo è scontato.

Ci troviamo quindi difronte ad un film che salva il salvabile egregiamente. Ogni incursione violenta dell’uomo lupo è uno spasso godibile e nemmeno poi così eccessivo nella resa visiva da non poterlo accostare - per fortuna! - agli action-horror prima elencati. In più, nonostante qualche detrattore purista, sia Del Toro che la Blunt e Weaving sono notevoli e perfettamente in parte. Blunt e Weaving caratterizzano i loro personaggi dotandoli delle coordinate iconografiche canoniche, ma non per questo inflazionate, essendo attori di peso e riusciendo quindi a personalizzare soprattutto nel gesto i loro personaggi. Benicio Del Toro invece, nonostante stia prendendo le distanze dal film, è perfetto. Disperato, ma sobrio. Maledetto, ma così rassegnato e stoico da preservare al carattere una dignità umana che davvero lo avvicina al mito letterario/cinematografico di matrice decadente-romantica-gotica. Caso a parte per Sir Anthony Hopkins. Davvero superlativa la sua interpretazione. Cattivo e carognesco fin dall’inizio. Il male si annida in lui e lo esterna senza vergogna, lo usa come moneta di scambio e come misura per calcolare il mondo. Pochi personaggi cattivi sono stati resi così teoricamente sul grande schermo. Spesso infatti la loro letterarietà è stata giustamente confinata tra le pagine di un libro. In alcuni casi invece, come questo, il cattivo è metacaratteriale, cioè riflette sul ruolo stesso del cattivo nel mondo narrativo e del cattivo come motore narrativo: non dimentichiamo che senza conflitto non c’è l’azione narrativa. Hopkins è in buona compagnia, con lui il Samuel L. Jackson di Unbreackeable, il Gene Hackman di Runaway Jury, il Gary Oldman di Léon e ovviamente il Joker di Heath Ledger, per non dimenticare sublimi principi del male e mostri tout-court che sono essi stessi significanti e significazioni del male stesso.

Chi scrive è un dichiarato appassionato del genere licantropico che ha visionato l’80% dell’intero corpus cinematografico dedicato al lupo mannaro e quasi la stessa percentuale del corpus letterario a lui dedicato. Forte di questo e di nessun altro merito, posso dire che The Wolfman poteva essere migliore, più minimal, meno virtuosistico e meno videoludico, ma sa cogliere nel vivo le dominanti dell’archetipo mannarico - la maledizione, l’istintualità bestiale, la fisicità, il corpo e la carne, la sessualità, il sangue, la solitudine, il doppio e così via - senza purtroppo portarli ad una rappresentazione esemplare.

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