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Che. L'Argentino

Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film

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La recensione su Che. L'Argentino

di spopola
8 stelle

Una rappresentazione dell’eroe che ben oggettivizza l’esemplarità coerente delle scelte fatte che definisce in positivo la carica eversiva etica e politica delle sue azioni che travalica gli eventi e rende la statura eccezionale di un uomo così idealisticamente irripetibile come è stato il Che al di là dell’oleografica costruita sulla sua figura.

Un giudizio più esaustivo sull’ultima fatica di Steven Soderbergh potrà essere emesso solo dopo aver visionato la seconda parte del dittico che per motivi di convenienza pratica dei distributori, arriverà nelle sale a fine mese, poiché le due parti - a mio avviso inscindibili, e non a caso previste come “due lungometraggi da presentarsi in sequenza” dal suo autore - qui in Europa, avranno invece vita separata, pur se a distanza (fortunatamente) abbastanza ravvicinata. Per il momento dovremo necessariamente soffermarci sul primo segmento che analizza gli anni che potremo definire “eroici”, quelli della sua attività di rivoluzionario al servizio attivo (e vincente) della causa Cubana, certamente il più “insidioso” perché poteva dare adito alla costruzione di un “santificazione elegiaca” del mito che invece è stata fortunatamente evitata, ed è davvero un merito non indifferente questo aver concentrato l’attenzione sull’umanità del Che, sulla sua caparbia integrità morale, persino sulla sua vulnerabilità fisica (l’asma) piuttosto che pigiare il pedale sugli aspetti più romantici e affabulatori che forse avrebbero meglio soddisfatto l’esteriorità “leggendaria” portata alle estreme conseguenze da un immaginario collettivo che ha fatto di Ernesto Guevara un’icona fortemente enfatizzata, quasi “pop”, un riferimento “immaginifico” che oggi come oggi però è forse più rappresentazione esteriore (il manifesto che lo ritrae, ormai un classico fra i più celebrati, venerati e diffusi, quasi “inflazionato”) che substrato politico di conoscenza reale e “riflessione critica” su una scelta di vita e una “vocazione”, riguarda in pratica più la “scorza trasfigurata” quasi cristologia dell’apparenza, che non la vera e propria “ideologia” che ci sta dietro. Diversissimo quindi l’approccio rispetto a quello un po’ più guascone (ma ugualmente pregnante) di David Salles con i suoi “Diari della motocicletta” che ripercorreva gli anni della “formazione”, perché molto differenti sono anche le fonti di riferimento “letterario” che riproducono due momenti distinti di un percorso coerente come pochi altri e mai rinnegato né tradito, e non potevano di conseguenza che modificarsi anche gli orientamenti non meno appassionati di un regista come Soderbergh, capace a volte (e questa è una di quelle) di “centrare” magnificamente il bersaglio, ed altre invece di “trascinarsi” mestamente e con poco sostanza, in viaggi (lavori) che lasciano l’amaro in bocca per la supponenza presuntuosa della costruzione e la superficialità che le pervadono. Una parte della critica internazionale (a torto secondo il mio punto di vista) lo ha bollato un po’ troppo sbrigativamente come “apologetico” (una terminologia che credo mal si adatti alla secchezza quasi documentaria per lo meno di questa prima parte) anche se fortunatamente ci sono state altrettanto numerose voci fuori dal coro (una per tutte, quella di Jim Hoberman che considera l’opera “un film destinato ad essere approvato da Rossellini, invidiato da Coppola e probabilmente apprezzato dal suo soggetto” - Giulia d’Agnolo Vallan sull’ultimo numero di Ciak -, il che mi sembra che possa essere ritenuto un punto di vista che ben oggettivizza l’esemplarità coerente delle scelte fatte, e rappresenta un riconoscimento in positivo di non poco conto che riequilibra l’asse delle prospettive). Ispirato al libro di Che Guevara “Sulla Sierra con Fidel – Cronache della rivoluzione cubana” (Editori Riuniti) ne rispetta magistralmente lo spirito, e la carica “eversiva” non solo politica ma anche etica che travalica gli eventi e rendono la statura eccezionale di un uomo così idealisticamente irripetibile, quasi disturbante per gli equilibri biecamente opportunistici delle scelte di potere. “Il pregio di questo libro” scrive Saverio Tutino recensendolo, “consiste nella sua semplice offerta di una sorta di diario della guerriglia a Cuba, scritto dal Che non ancora contaminato da polemiche teorico-politiche e pieno di un'esemplare misura e sensibilità narrativa. Da questi racconti, o pasajes come li aveva intitolati lui, si ricava un immagine perfetta del personaggio Guevara: attento e scrupoloso nella conoscenza delle persone che lo circondano, come nel riflettere subito sugli avvenimenti e nel trarre lezione dall'esperienza. Tutto questo, senza pedanteria e soprattutto senza retorica.". Ecco, potremmo dire che in un certo senso (e ovviamente a suo modo) anche il film è tutto questo. Il filo narrativo è strutturato intorno all’intervista che Che Guevara rilasciò a New York nel 1964, in occasione del suo celeberrimo discorso (pure centrale nella pellicola) tenuto alle Nazioni Unite, al quale più apertamente è lasciato il compito di enunciare l’impostazione ideologica della “coscienza” e dell’azione offensiva contro il regime di Batista (le sequenze sono, molto convenzionalmente, realizzate in bianco e nero ma semplicemente per differenziarle dal resto, perché questa volta davvero il regista è “pratico” e lineare e non eccede in svolazzi formalistici decisamente fuori sintonia nel contesto). La partecipazione alla lotta armata, le azioni di guerriglia vera e propria, rappresentano allora il lungo flashback a colori, il corpo pulsante del “tracciato” (ricomposto in concreto come se le immagini fossero state davvero acquisite in presa diretta, rappresentassero la documentazione quasi “asettica” di un evento), incorniciato proprio (e intervallato) quasi seguendo a ritroso nel ricordo il filo dei discorsi e delle risposte alle domande della giornalista, non solo dall’intervista e da ciò che ci sta dietro, ma anche dalla attendibilissima ricostruzione di quell’intervento epocale al Palazzo di Vetro, che serve appunto a “veicolare”, rendendola percettivamente conoscitiva anche ai profani, la prospettiva internazionale politica e sociale di quel particolare “momento storico”. Nelle scene di guerriglia dei disagiati giorni nella giungla e non solo, si privilegia invece l’uomo, ed è su tale aspetto che ci si sofferma prioritariamente, una visione insomma tutt’altro che “commemorativa”, che riporta l’icona “costruita” dalla convenzionalità, alla dimensione realistica che ne fa davvero “uno di noi” (si fa per dire) solo molto più coerente, determinato e combattivo e per questo indimenticabile e persino - credo - “irripetibile”. Ed ecco allora il “Che” antieroe guerriero di Benicio Del Toro (straordinario mediatore del pensiero registico) convincente e umano nel tratteggiare i sui tanti momenti di fragilità durante le lunghe marce nella Sierra, spesso ripreso di sbieco o anche di spalle, appesantito dalla fatica (ma mai demotivato), alle prese con i disagi del vivere quotidiano e con i frequenti attacchi di tosse delle crisi asmatiche, ma caparbiamente attaccato alle proprie convinzioni di “conoscenza” salvifica che predica e impone ai contadini l’istruzione (la necessità di “conoscere” per emanciparsi davvero). Un uomo che crede così tanto alla sua missione, da chiedere ai propri soldati la disponibilità assoluta e incondizionata della propria vita, in relazione al raggiungimento dell’obiettivo della vittoria e ai rischi che ne conseguono (o L’Avana o morte, insomma), e un ritratto complesso e sfaccettato della sua personalità pieno di introversioni “private” fatte di sfumature che aprono squarci profondi sul “dibattito interiore” sempre attivo e costante (il timore e il dolore per le perdite o gli abbandoni, i sospetti dei tradimenti, la necessità di punizioni esemplari verso coloro che si macchiano di “incoerenza” e diventano “infedeli”) ma che evidenzia anche aspetti più marginali, ma ugualmente incisivi, come la sua scarsa loquacità, o la propensione ad alleggerire un po’ i toni non rinunciando a qualche schermaglia con i suoi compagni. Il tutto, senza rinunciare però a far emergere anche la fermezza carismatica del comandante e la qualità “risolutiva” di inventare strategie vincenti e di portarle avanti con appassionata convinzione. Anche l’analogo processo di rappresentazione che riguarda l’ufficialità del discorso a New York, è giocato su due fronti contrapposti: uomo affascinante, volitivo e possente davanti alle telecamere e agli occhi degli altri leader del mondo, come davanti agli altri rivoluzionari “in marcia”, ma capace al tempo stesso di respingere la “mondanità” delle apparenze e delle convenzioni, e il conseguente rifiuto di partecipare ai pranzi ufficiali previsti dalla circostanza, ma privilegiando al contrario un rapporto più diretto e fruttuoso (quasi “populista”) col proletariato di base, (la consumazione dei pasti nelle cucine attorniato solo da cuochi e dalle inevitabili, “necessarie” guardie del corpo. La conquista di Cuba al servizio di Castro, è documentata con pedissequa attendibilità “cronachistica, è ricostruita con semplicistica immediatezza anche “figurativa”, ma è proprio questo andamento minimale che fa lievitare il tutto quasi fino a farlo diventare “documentaristicamente epico” dal sapore veritiero della testimonianza in diretta. Girato in digitale, praticamente in 39 giorni di riprese più o meno corrispondenti a quelli impiegati dai rivoluzionari per avanzare verso la capitale fino alla presa vittoriosa di Santa Clara, il regista utilizza più primi piani per i comprimari che per il protagonista, spesso ripreso da lontano o mischiato ai suoi compagni (sempre con i segni distintivi della sua personalità) proprio per farne “uno fra gli altri”… indiscutibilmente un leader (questo era impossibile evitarlo) ma non un “capo assoluto” che si diversifica “prepotente” e solitario. Soderbergh ha dunque vinto con ampio margine la scommessa (immagino anche con se stesso), rifiutando i vezzi del suo fare cinema per tracciare un credibile, appassionato (e appassionante) spaccato di storia e disegnare un ritratto veritiero necessario quanto mai, capace di raccontare anche alle nuove generazioni che forse lo “celebrano” inconsapevolmente, ma non lo conoscono quanto sarebbe necessario, chi era davvero la “persona” Che Guevara, quale era la sua statura etica e sociale, il suo coerente pragmatismo, la sua furente concezione “rivoluzionaria” di lotta contro il capitalismo imperante, ed è ben aiutato in questo suo processo di “destrutturazione” ragionata di un “mito” inerte per farlo ritornare ad essere pulsante lezione comportamentale e di vita, dalla statura superiore di un efficacissimo Benicio del Toro già sopra ricordato, che si misura e domina il personaggio affidatogli con una partecipazione “distanziata” che è una lezione di stile e di “percezione”, capace di penetrare dentro l’anima, di esplorarla a fondo, fornendo anche a noi spettatori inedite chiavi di lettura capaci di cogliere gli aspetti più privati e segreti del Che (e chi non ha letto i suoi scritti, aveva assoluta necessità di un apporto così umano e sentito). Efficaci e pertinenti i volti e i corpi di tutti gli altri attori che lo affiancano (solo un tantino stereotipato Demian Bichir come Fidel Castro, anche lui comunque fisicamente attinente che avremo modo di valutare meglio nel prosieguo del percorso.)

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