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Calle Santa Fe

Regia di Carmen Castillo vedi scheda film

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La recensione su Calle Santa Fe

di yume
8 stelle

Una visione della Storia diversa dai consueti documentari che raccontano la storia ufficiale, il Cile di Carmen Castillo era un mondo di piccole cose, affetti famigliari e vita quotidiana, uomini e donne che lottavano per una vita decente, non erano votati alla morte, speravano di vincere ed è lì che fu necessario diventare eroi.

Carmen Castillo compie un viaggio della memoria per le strade di Santiago del Cile.

Al 725 di Calle Santa Fé c’è la casa dove abitò negli ultimi mesi della sua vita di moglie, madre e resistente contro la dittatura di Pinochet.

Raccogliendo testimonianze di vicini, cittadini, anziani e giovani, in un’avvincente sovrapposizione tra personale e politico, Castillo ricostruisce una storia tutta interiore, sua e di una collettività intera, che s’interroga su ciò che ha vissuto, analizza e valuta da una distanza depurata da tensioni e passioni, ricostruisce con sguardo lucido anni in cui tanti morirono di morte violenta nel fiore degli anni e un’intera generazione fu distrutta.

 

Chi è Carmen Castillo

 Il 5 ottobre del 1974 (il golpe è dell’11 settembre 1973) le truppe armate della Giunta golpista di Pinochet fecero irruzione nella casa dove viveva in clandestinità e uccisero il suo compagno, Miguel Enriquez, capo del MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria), gruppo armato di resistenza.

Lei, incinta, fu gravemente ferita e portata fortunosamente in ospedale grazie a coraggiosi vicini che chiamarono un'ambulanza. Medici e infermieri l’aiutarono con grande sprezzo del pericolo, erano tempi di paura e di chiusura in difesa, ma dopo un mese i leader militari della DINA “penetrarono con sguardi carichi di odio, mi bendarono gli occhi e mi buttarono in auto, non azzardarti a tornare, la prossima volta ti ammazziamo” e la spedirono in aeroporto imponendole di non tornare più.

A Cambridge, dove riparò grazie alle pressioni internazionali ( Regis Debray , Simone Signoret e Angela Davis) perse Miguel Angel, nato sofferente per le vicende subite dalla madre.

Nel 1976 si stabilì definitivamente a Parigi dove ha continuato a svolgere un’intensa opera di attivismo politico a favore della causa cilena, dedicandosi anche al documentario cinematografico.

Selezionata al Festival di Cannes nel 2007 con Santa Fé Street, Carmen Castillo appartiene di diritto a quella schiera di partigiane che, in ogni angolo del pianeta, hanno combattuto, sole o accanto ai loro uomini, per un sogno.

E’ così che lei e le compagne chiamano quello che le ha spinte a scegliere una strada fatta di detenzione, tortura, esilio, abbandono di figli, morte. Nel film torna spesso questa parola, il sogno le ha rese capaci di imprese eccezionali, cose di cui le sopravvissute parlano con le parole semplici di chi combatte per la vita e una vita senza sogni non merita di essere vissuta.

La repressione brutale messa in atto dal regime dittatoriale continuò per tutti gli anni successivi al golpe e alla morte di Salvador Allende, e finì solo nel 1990, alla caduta di Pinochet avvenuta anche sulla spinta di movimenti popolari mai interrotti per tutti quegli anni.

 

Il documentario è un lungo aggirarsi nelle strade di una periferia poco diversa da quella lasciata nel ’74.

Carmen vi torna dopo 13 anni perché la Giunta le ha concesso 15 giorni per visitare il padre malato, e l’aria che si respira è quella di un Paese che sta soffrendo. Quando torna anni dopo come cineasta non molto è cambiato, è sempre una modesta periferia di gente umile, ma la sua casa è stata venduta, ora l’arredo la rende irriconoscibile, la vita scorre e le nuove generazioni vivono spesso ignare del tremendo passato.

Il suo racconto parte dai giorni del primo ritorno, ma ad ondate concentriche si allarga a tutti gli anni successivi, fino al 1990 e oltre, con flashback, filmati originali tratti da reportage d’archivio, interviste a donne e uomini, brevi chiacchierate in interni di case di operai, piccoli impiegati, quel pueblo unido che la ricca borghesia cilena trovò il modo di tenere a bada e, se possibile, eliminare del tutto.

Ma non fu possibile, anche se le piaghe furono tante, i desaparecidos innumerevoli, troppe le madri che piansero i figli morti a vent’anni.

Carmen incontra per strada quelli che allora erano vicini di casa e questi la riconoscono, si siedono a parlare sul marciapiede, c’è ancora tristezza nei loro sguardi.

Uno speaker televisivo apre il film con la notizia in diretta dell’avvenuto assalto al “covo della resistenza” in Santa Fé Street il 5 ottobre alle ore 13.30.

Immagini in bianco e nero, la notizia è di fredda cronaca, si parla di “… un’operazione congiunta di servizi d’Intelligence e Forze Armate che nell’irruzione si sono scontrate alle 13.30 con una forte resistenza armata. Infine alle 15.30 la polizia è riuscita ad entrare nella casa dove ha trovato il corpo senza vita di Miguel Enriquez e Carmen Castillo gravemente ferita e ricoverata in ospedale”.

La notizia finisce qui, si passa ad altro, le parole sono testuali, esempio luminoso della mistificazione della verità quotidianamente messa in atto dai media asserviti al potere.

Entra la voce di Carmen nella sequenza successiva, il colore vintage della ripresa illumina una scrivania coperta da foto, riviste, ritagli di giornale, in giro alcuni peluches e giocattoli, il “covo della resistenza”:

Non mi serve ricordare la bellezza del suo viso quando morì. Miguel è ancora qui. Sono io a essere un’altra persona, un’estranea in questa storia.

Ma in quei dieci mesi passati alla casa in calle Santa Fé ho vissuto quello che uno vorrebbe vivere per tutta la vita. Chissà se era questa la felicità. Ogni minuto vissuto come se fosse l’ultimo, lasciavamo minacce e paure all’esterno e una volta entrati in casa tornavamo a vivere, a respirare. Tutta la casa è piena di musica, tango, Beethoven, Zitarrosa, odore di cucinato e giochi di bambini. Miguel lavora, scrive a mano, io a macchina, si volta, parla velocemente, la sera racconta una storia alle bambine tra balli e urla. Il tempo si è fermato, non passa.

Mi sono dovuta abituare alla sua assenza, a questo vuoto, prima di osare riavvicinarmi un giorno alla casa, a quella casa che ha fatto parte di me fino a quel sabato del 5 ottobre 1974…”

Una maschera fatta di dimenticanza è quella che ha dovuto indossare per sopravvivere all’esilio, per non farsi travolgere dalla nostalgia, dal pericolo “dei ricordi accantonati”, ma il ritorno per la malattia del padre la costringe a fare i conti col passato e una sensazione di doloroso scollamento la fa sentire estranea.

 

Carmen Castlillo ci parla di un Cile mai raccontato così dall’interno, partendo dalla materia incandescente dei ricordi, che scava nelle parole di tanti che hanno visto, lottato, sofferto, sono fuggiti e ritornati per esserci ancora, incapaci di pensare al pericolo. Sono soprattutto donne dal viso sereno, molte sono state torturate ma non hanno ceduto.

E ora vogliono che quella storia non venga dimenticata, si farebbe presto, fra cinquanta anni, a dire “Cos’è stato?”

Il film è un ininterrotto sovrapporsi di immagini, un reportage intenso e stratificato che crea un’altalena emozionale in chi guarda. Momenti di tranquillo dialogo tra amici, madre e figlia, vicini di casa sono bruscamente interrotti da riprese di soldati con mitra spianati, un uomo a terra con le mani sul capo, immobile, strade semivuote e militari dalla faccia torva che passano in auto.

O canti rivoluzionari e bandiere spiegate delle tante rivolte popolari di quegli anni, masse che attraversano le strade e il cimitero cantando, recando foto con scritto “ ¿Donde estan?”, accendendo candele nell’ Estadio Nacional, triste luogo di raccolta di migliaia di perseguitati nei primi mesi del golpe, pronti per la “tortura sistematica organizzata come un meccanismo ad orologeria, intesa non solo a dilaniare i corpi ma soprattutto l’essenza umana di ciascun militante”.

Gladys Diaz, torturata, ricorda quel tempo in cui “… il profumo di rose si mescolava con quello di carne bruciata, con le urla e i pianti. … Imparai per sempre che possono imprigionarti, farti a pezzi, spezzarti le ossa e sfondarti i timpani, dilaniarti la carne ed applicarti gli elettrodi. Possono farti di tutto tranne che toglierti la libertà, se uno decide di tenersela. Fui io a decidere di non essere sconfitta e in questo modo fui in grado di essere vincente.”

Nel luogo della famigerata Villa Grimaldi, casa di tortura fra il 1974 e il 1977, come Via Tasso a Roma, trent’anni dopo, quattro donne siedono di notte intorno al fuoco davanti al muro con tutti i nomi. Ricordano i giudici che aprivano le porte, i cani, le piastrelle della cucina e del bagno, i medici stregoni che le ipnotizzavano per ottenere informazioni, ricordano e vogliono che tutti sappiano, i luoghi sono importanti per raccontare a chi non c’è stato, danno verità e concretezza al racconto.

Queste donne che non hanno più beni materiali da lasciare ai figli vogliono lasciare un ricordo di cui possano essere fieri: “In questa circostanza mia madre decise di non perdere la propria dignità”.

 Torna a volte il viso di Miguel, il video di un discorso, la sua immagine sullo striscione del MIR, sulla sua tomba.

Un andirivieni di scene che hanno il caotico affastellarsi della memoria quando c’è troppo da ricordare e troppo ancora da metabolizzare.

Non sapevamo cosa fosse una dittatura, chi fosse il nemico” dice Margarita MarchiSe ci fosse oggi di nuovo un golpe i giovani sarebbero più preparati”.

La clandestinità fu necessaria e tremenda, un’esperienza sconosciuta che si scontrava con il bisogno di casa, un luogo familiare dove coltivare quei fiori che scorrono sulla scena mentre parla.

Nel 1978 il MIR promosse la campagna di “rientro clandestino”, molti tornarono incuranti del pericolo, il bisogno di stare vicini alla gente e sostenere l’azione rivoluzionaria contava più di ogni altra cosa.

Volevamo recuperare quello che avevamo perso, la nostra realtà, le nostre possibilità e il diritto di costruire la società che volevamo” dice Margarita, già arrestata e torturata ma tornata, non pensava alla camera di tortura ma ai propri sogni, alla vita che si desidera e si sceglie: “Non voglio analizzare politicamente il nostro ritorno ma in termini di cuore”.

 

E’ in questa visione così diversa dai consueti documentari che raccontano la storia ufficiale la verità e l’impatto forte di Santa Fé Street. Quel mondo devastato dal golpe fascista era un mondo di piccole cose, di affetti famigliari e vita quotidiana, uomini e donne che lottavano per la vita, una vita decente, non erano votati alla morte, speravano di vincere ed è lì che fu necessario diventare eroi.

Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” continuerà sempre a dire Brecht.

 

Voltare pagina ora che sono passati trent’anni? Quando si è così fortunati da sopravvivere bisogna continuare a vivere? E la domanda che fluttua dentro è: ne è valsa la pena?

Sono le domande finali, ne è valsa la pena, certo, ma come si fa a lasciar andare quei morti e voltare pagina?

La realtà che scatenò la nostra lotta nel passato non è cambiata di molto. Stessa ingiustizia sociale, stessa oppressione e disprezzo per la nostra sofferenza, ancora non sappiamo dove sono i corpi delle persone scomparse, non tutti i criminali sono stati condannati, né una piazza né una strada in onore dei combattenti della resistenza.

Eppure, lontano dal grande schermo, qualcosa emerge…

Due rappers chiudono il film, cantano di lotta, consapevolezza, organizzazione, salute, case, educazione, sul fronte del palco campeggia una scritta:

La migliore arma dell’oppressore è la mente dell’oppresso"

 

 

 www.paoladigiuseppe.it

 

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