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Tokyo sonata

Regia di Kiyoshi Kurosawa vedi scheda film

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La recensione su Tokyo sonata

di yume
8 stelle

Passare dall’horror a sfondo sociale di tutti i suoi film precedenti al terrore soffocante che risiede all'interno di una famiglia del ceto medio su cui si abbatte il dramma della disoccupazione è cosa che a Kurosawa Kiyoshi riesce magnificamente.

La forma sonata è un tipo di composizione La struttura della forma-sonata viene solitamente definita come bitematica tripartita. La tripartizione comprende la sezione di Esposizione (a volte preceduta da una Introduzione), quella di Sviluppo e infine la Ripresa (a volte seguita da una Coda)” (da Wikipedia)

 

Tre movimenti, in Tokyo Sonata, l’avvio è di basso, man mano più sordo e dolente.

Quindi  il cuore pulsa sempre più veloce e sanguina, ognuno dei quattro personaggi ha ferite aperte, la tensione supera sé stessa, sembra si sia diretti verso la catastrofe.

Ma nel terzo movimento la Sonata si placa nel silenzio calmo e nell’ascolto incantato.

“In nessuna forma di musica strumentale come nella sonata vi è una opportunità migliore di descrivere i sentimenti senza parole... rimane solo la forma di sonata in grado di assumere qualsiasi carattere ed espressione.” Scriveva nel 1775 Johann Abraham Peter Schultz.

E il terzo movimento di Tokyo Sonata è quasi muto. C’è la musica, il Clair de lune dalla Suite Bergamasque di Debussy suonato integralmente dal giovane  Kenji , un talento scoperto fra gli stracci, potremmo dire, come la tastiera muta buttata nella spazzatura che il ragazzo ha raccolto e nascosto in casa. Il padre non voleva che studiasse pianoforte, così, per uno sciocco puntiglio, per far sentire la sua autorità.

Passare dall’horror a sfondo sociale di tutti i suoi film precedenti al terrore soffocante che risiede all'interno di una famiglia del ceto medio su cui si abbatte il dramma della disoccupazione è cosa che a Kurosawa Kiyoshi riesce magnificamente.

Tutti gli stilemi del suo cinema sono rispettati, le ellissi e la suspense, campi larghi e lenti movimenti di camera, lo sguardo diretto sul lato nascosto delle cose, là dove incombono la tragedia, l’enigma e l’incomprensibile coperti da paradigmi di ordine e regolarità.

Il brusco capovolgimento di scena che dal quadretto rassicurante di una vita tranquilla si trasforma in un vortice che risucchia tutti trascinando sul fondo appartiene a quell’orrore del quotidiano che non appare, non ha bisogno che la temperatura emotiva dello spettatore si alzi, circospetto e insinuante come una serpe toglie dal basso ogni sorta di radicamento al terreno sicuro del reale.

Quello che appare, allora, è uno scenario apocalittico dove tutto continua a scorrere nei binari consueti, come quei treni che passano e ripassano con i loro finestrini ciechi.

Siamo a Ozu, il primo passo di ogni cineasta giapponese che si rispetti.

E la prima scena di Tokyo sonata è in perfetto stile Ozu.

Un vento leggero muove la tenda, entra un po’ di pioggia a bagnare il pavimento,  la madre    corre ad asciugare con passo leggero e la macchina è posta “ad altezza di tatami”.

L’interno dell’appartamento della famiglia Sasaki è sobrio, gli spazi cubici, i pasti silenziosi e le ciotoline variegate, marito e figli alla fine ringraziano educatamente la madre per la cena.

Fuori c’è Tokyo, sempre lei, la città per antonomasia, quella dei salary men e della yakuza, delle madri di famiglia silenziose e docili e dei figli che scalpitano in cerca d’altro. La Tokyo che è un pezzo importante dell’immaginario giapponese, città tentacolare e straniante, dove si dà un pasto caldo in spazi adibiti a gente in giacca e cravatta rimasta senza lavoro, dove svettano i grattacieli delle compagnie internazionali d’affari e da un momento all’altro ti ritrovi a svuotare la tua scrivania e mettere tutto dentro una scatola di cartone.

Come negli USA, e film del genere ne abbiamo visti tanti.

Il Giappone sconfitto del dopoguerra ha metabolizzato ferite che sono diventate tumori.

C’è in Tokyo Sonata una lettura politica che non va sottovalutata.

Il primogenito che decide di arruolarsi con l’esercito americano, contravvenendo, complice il governo che lo lascia fare insieme ad altri, alla Costituzione che vieta al Giappone di entrare in guerra.

Ma gli Americani non vanno ad uccidere! risponde il ragazzo alla madre perplessa.

No, gli Americani portano la pace nel mondo!

 

Generazioni imbevute di propaganda, modelli di sviluppo importati dall’Ovest, spietato confronto generazionale, reificazione dell’individuo divenuto una piccola pedina dell’ingranaggio.

L’uomo dev’essere uno yes man, e se non ne ha la forza o ha troppa dignità si ritrova a lavar cessi.

La famiglia è solo un veloce punto d’incontro a cena, i pranzi si consumano fuori, scuola, ufficio, nessuno dei quattro sa molto degli altri tre, e finchè la macchina funziona nessun problema.

Se però s’infila una zeppa nell’ingranaggio tutto deflagra e restano macerie.

In questa famiglia disfunzionale, dove regna l’indifferenza ed è viva l’adesione ai canoni più distorti del vivere associato, dove il mondo esterno si riflette spietato e detta le sue regole, la presenza di un piccolo ragazzo che suona prodigiosamente quasi senza scuola, senza retroterra, anzi osteggiato in tutti i modi, è cosa che non sa di finale consolatorio.

Quell’ultima scena commuove, è vero, ma non è condita di applausi e abbracci, è come se Kurosawa dicesse: “Ecco, c’è anche questo, nonostante tutto. Chi vuole ascolti”.

https://www.youtube.com/watch?v=VM5LbbH4yNo

 

Siamo dalle parti di quellabirinto della semplicità” che Ozu aveva disegnato?

Erano altri tempi, certo, forse meno spietati, ma siamo sicuri fossero meno crudeli?

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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