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Ladyhawke

Regia di Richard Donner vedi scheda film

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La recensione su Ladyhawke

di HypnoticEye
7 stelle

Alla fine degli anni '70 il cosiddetto riflusso - l'abbandono dell'impegno attivo in campo politico e sociale per un ripiegamento nel privato - ebbe inevitabili e vistose ricadute anche in ambito cinematografico. Ad essere influenzato dal fenomeno fu, primariamente, il cinema d'autore; a mo’ d'esempio eclatante basti ricordare che nell’edizione 1980 della cerimonia di premiazione degli Oscar la coralità densa di significati sociali, politici e filosofici disegnata dall’affresco epocale di "Apocalypse Now" venne quasi ignorata a favore dell’intimismo spicciolo di "Kramer contro Kramer", premiato con cinque statuette per le categorie principali, contro le due, meno importanti, assegnate al capolavoro di Coppola. Il riflusso introdusse però cambiamenti paradigmatici del mutamento dei gusti del pubblico anche nel cinema di genere. Nel 1977 - anno in cui negli USA usciva "La febbre del sabato sera", film simbolo del nuovo corso - la fantascienza mise da parte le suggestioni intellettuali di pellicole come "2001: odissea nello spazio" e "Solaris", o le metafore distopiche narrate ne "Il pianeta delle scimmie", "Arancia meccanica", "L'uomo che fuggì dal futuro", "Zardoz" e altri, per dare libero sfogo alle avventure da fumetto di "Guerre stellari": astronavi, viaggi intergalattici ed esseri alieni, in bilico tra fantascienza e fantasy, che se da un lato rinverdivano i fasti della science fiction più immaginifica e infantile (quella alla Flash Gordon), dall’altro riportavano alla ribalta un genere (lo sword and sorcery) che, essendo impermeabile o comunque difficilmente adattabile a letture di tipo politico, nel decennio dei Seventies era caduto in bassa fortuna. Con il ritorno in grande stile alla dimensione avventurosa fine a se stessa, svincolata da interpretazioni e allusioni riconducibili a una prospettiva politico-economico-sociale, il fantasy giunse così a collocarsi sul podio dei generi “pop” più rappresentativi del decennio successivo. Anni in cui le storie, ispirate ad antiche leggende e ambientate in mondi remoti, di intrepidi guerrieri, barbari muscolosi, principesse prigioniere in castelli inaccessibili, sovrani, magie e creature mostruose, facevano sognare ad occhi aperti bambini e ragazzi che affollavano le sale cinematografiche dove venivano proiettate: "Il Signore degli Anelli" (versione a cartoni animati del 1978), "Excalibur", "Il drago del lago di fuoco", "Conan il barbaro", "Krull", "La storia infinita", "Yado", "Taron e la pentola magica", "Legend" e "Willow", tanto per citare alcune fra le opere più riuscite e famose.

"Ladyhawke", distribuito nel 1985, nel pieno del fulgore del genere, appartiene al fantasy storico. A differenza del fantasy eroico (heroic fantasy), in cui eroi tutti muscoli sono in conflitto violento con una varietà di cattivi, principalmente maghi, streghe, spiriti malvagi e altri esseri sovrannaturali (Conan the barbarian, ideato da Robert E. Howard nel 1932, è il personaggio più celebre riconducibile a tale filone), e del fantasy epico (epic fantasy), nel quale la lotta tra il bene e il male, descritta in modo molto chiaro e netto, si svolge in un mondo immaginario (l’universo inventato da J. R. R. Tolkien nella saga di "The Lord of the Rings" è epic fantasy allo stato puro), il sottogenere del fantasy storico presenta elementi fantastici (fenomeni magici e creature mitologiche) collocati in un ambiente storico, o pseudostorico: medioevale, nella maggioranza dei casi. E proprio in un borgo del Medioevo francese ha inizio la bella fiaba diretta da Richard Donner. Pellicola che ha al suo attivo contributi artistici e tecnici di prim’ordine: il cast, che può contare sull’incantevole bellezza di Michelle Pfeiffer, sull’inconfondibile carisma di un Rutger Hauer fresco di "Blade Runner" e sulla simpatica buffoneria di Matthew Broderick; gli insoliti (per una megaproduzione americana), suggestivi paesaggi - anche se la trama nell’edizione italiana vuole richiamare un’ambientazione francese, il film è stato girato quasi esclusivamente in Italia, fra boschi, vallate e castelli abruzzesi, emiliani e lombardi: la scena in cui il falco viene ferito è stata girata a Campo Imperatore (L’Aquila), il rifugio del monaco è la Rocca di Calascio, situata all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso, appositamente scenografata, mentre i borghi medievali includono le località di Torrechiara (Parma), Castell’Arquato (Piacenza), Soncino (Cremona) e Bacedasco, frazione di Vernasca (PC) e la veduta esterna in lontananza del borgo di Aguillon (Aquila in originale) è in realtà quella di Castel del Monte (provincia dell’Aquila), a pochi chilometri da Rocca Calascio; le luci mozzafiato, che sono curate da uno dei più grandi autori della fotografia cinematografica a livello mondiale: il pluripremiato Vittorio Storaro; i costumi, ottimi, così come gli effetti sonori, per i quali il film ricevette due candidature agli Oscar; le musiche, travolgenti, di Andrew Powell, un compositore che ha collaborato a lungo con Alan Parsons e Eric Woolfson, membri del gruppo The Alan Parsons Project: sonorità elettroniche che stridendo non poco con l’epoca in cui la vicenda è calata creano un effetto di straniamento per ricordarci continuamente che dietro le apparenze della patina storica di quel mondo, tutto è fantasia, avventura e sense of wonder, come in un gioco di ruolo per ragazzini alla Dungeons and Dragons. Purtroppo, a fronte di tanti lati positivi, il film è parzialmente rovinato da una sceneggiatura che nella seconda parte “allunga il brodo”, mettendo in secondo piano l’azione, dando troppo spazio agli ingredienti sentimentali e spostando così la fiaba in un altro sottogenere da essa stessa inventato: il fotoromanzo (o meglio il cine-fotoromanzo) fantasy. Alcune sequenze diventano ridondanti e il dramma amoroso dei due protagonisti è sviscerato con toni esageratamente enfatici. A smussare tale retorica non aiuta l’interpretazione di Leo McKern, che nel rievocare l’incantesimo demoniaco che ha separato per sempre i due amanti, “ci tetta dentro” con modalità troppo ampollose e veementi. Avrei visto bene in questo ruolo un attore come Donald Pleasence, il quale, a mio avviso, avrebbe saputo alternare sapientemente la rievocazione melodrammatica con il distacco ironico in un giusto equilibrio, adatto ad alleviare un’atmosfera divenuta un po’ pesante e tediosa per un fantasy. E il ritmo, risentendo di questo climax, si allenta. L’incipit della pellicola resta però magnifico: le immagini di un falco che vola allo spuntar del sole, accompagnate da una trascinante e irresistibile melodia fatta di tastiere elettroniche e di un sound molto anni ’80, trasmettevano, all’epoca dell’uscita del film, tanta energia contagiosa. Rivisto oggi, l’energia che tale sigla sprizza da ogni fotogramma si mescola inevitabilmente con la nostalgia per un genere cinematografico (il fantasy degli anni ’80) arenatosi nei meandri della memoria di tanti ex ragazzi come me. Tre stellette come giudizio oggettivo, ma mezza in più per i ricordi soggettivi.

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