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La classe - Entre les murs

Regia di Laurent Cantet vedi scheda film

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La recensione su La classe - Entre les murs

di ROTOTOM
8 stelle

Laurent Cantet è sempre attento alla realtà che inchioda la società moderna di fronte alla verità delle immagini. “Verso il Sud” e ancor di più “A tempo pieno”, sondavano l’estremo bisogno dell’individuo di ricoprire un ruolo, essere riconosciuto come qualcosa di importante al di là del semplice essere, annullandosi come essere umano per risorgere come idea, proiezione olografica di un essere perfettamente inserito sullo schermo della società. Non più apparire quindi, piuttosto rappresentare. “La classe – entre le murs “ affonda ancora di più in questa tematica di disgregazione dei rapporti umani partendo dalla sua naturale collocazione sociale: la scuola. Cosa rappresenta l’insegnante di lettere Francoise per i ragazzi della classe multirazziale di una qualsiasi scuola media parigina? Poco più di nulla. Non l’adulto gravido di esperienza da trasmettere; non il potere; né un sostituto della famiglia in via di disfacimento; né un complice o un compagno. Venendo a mancare l’autorità della società patriarcale, decaduto il modello autorevole dell’intellettuale da prendere ad esempio ed imitare, sparita la figura bigia del burocrate dell’istruzione statale che si preoccupa di servire nozioni e dispensare voti, rimane spazio solo per i martiri. Percepiti dai ragazzi come ologrammi parlanti proiettati sullo schermo di una società incomprensibile e attraverso i quali è possibile passare impuniti. Anche il linguaggio, caratteristica fondamentale che ha permesso all’uomo di abitare il pianeta terra senza sterminarsi subito, è sradicato e inutile. Le discussioni del professore, incalzato e messo al muro dai suoi studenti si arrotola sul significato delle singole parole che isolate dal contesto perdono ogni tipo di senso formando ambiguità e incomprensioni. La capacità di comunicare si risolve in una anemica e sincopata cacofonia di voci imberbi, voci superbe e irose, ignoranti e fiere di esserlo come contrappunto alla società colta e distante. I problemi di integrazione si acuiscono, la microsocietà della classe di Francoise, confusa e magmatica si scontra con la rigida normativa e burocratica forma del collegio docenti e i due mondi quando finalmente si incontrano, rimbalzano senza comprendersi perdendosi ognuno per la propria strada. Il film è di fatto un film sul linguaggio, sul suo fallimento come strumento di interazione tra esseri che non sono più senzienti ma organismi che reagiscono agli stimoli meccanicamente, senza alcun filtro intellettuale. Genitori inconsapevoli del proprio ruolo e punizioni che non sono percepite come tali, formano il quadro impietoso della microsocietà della scuola e dell’impotenza dei professori nel fornire alunni gli strumenti per affrontare il futuro, poiché del futuro non c’è alcuna percezione. Nessuna aspettativa, nessun cambiamento, nessuna percezione del tempo e del suo immane spreco. Un disagio che monta giorno dopo giorno, senza che nulla cambi e senza che si trovino le parole per comunicare l’inadeguatezza al mondo che caratterizza la vita dei ragazzi. Cantet, rinchiudendo i protagonisti nella claustrofobica e sovraffollata classe e entro le mura dell’istituto (come dice il bellissimo titolo originale, Entre les murs) come se fosse un carcere, mette in scena il fallimento di ogni tipo di istituzione: la famiglia debole o assente, la scuola e tutte le teorie pedagogiche, la società multirazziale vista come rappresentazione dell’immobilismo della politica del buonismo politicamente corretto. L’appellativo di “commedia” attribuito a questo film, non è puntuale. Gli sprazzi ironici e le battute dei ragazzi, gli intercalari, le espressioni gergali divertono per pochi minuti per lasciare spazio alla consapevolezza della clamorosa mancanza di contenuti di un linguaggio povero, standardizzato e succube di una società sterile. Una sinfonia rap che all’orgoglio di strada ha sostituito l’incapacità di produrre una qualsivoglia forma del pensiero, preferendone una sua gorgogliante imitazione. La tragedia si compie negli sguardi smarriti, nei gesti stizziti, nelle furiose partite di pallone nel cortile della scuola durante l’intervallo che tanto assomiglia all’ora d’aria delle carceri, riprese da lontano, come da una torretta di osservazione. Solo una ragazza alla fine, trova le parole per dichiarare smarrita che lei non ha imparato nulla durante l’anno scolastico. A differenza dei compagni che sollecitati dal professore accennano a qualche nozione di qualche materia a caso, lei dichiara che non ha capito il senso di quello che sta facendo, e che al liceo non ci andrà. Peccato, perché è evidentemente l’unica che avendo elaborato una consapevolezza così dolorosa ed averla comunicata, dimostra di aver imparato qualcosa. Il fallimento della scuola è non averla resa consapevole di questo passo in avanti.
Gran bel film, Cantet forgia la forma sul tema, evitando di cascarci dentro. Rifiutando qualsiasi forma di narrazione, in totale assenza di commento musicale evita la retorica e semplicemente mostra, documenta senza creare un documentario. Il fiume di parole che si riversa sugli spettatori non è mai didascalico o esplicativo della storia, poiché storia non c’è. E’ un film che non inizia e non finisce piuttosto “prosegue” in una porzione indefinita di tempo senza che se ne avverta il trascorrere. L’immobilità entro cui il regista costringe gli attori è l’immobilismo senza tempo proprio del carcere, luogo di segregazione e punizione, di mescolanze e sensi di colpa. Le alte mura della scuola servono a non fare uscire, ultimo baluardo di una dilaniata autorità che istituzionalmente deve rinchiudere bestie votate al macello senza alcuna consapevolezza di esserlo.
Girando in digitale, lontano dall’eleganza formale di “A tempo pieno”, Cantet impasta voci e volti, Dilata la messa in scena su lunghi scontri verbali sospesi senza risoluzione e mischia la realtà alla finzione, la sua presenza si avverte e quindi la nostra, immersi nella babele di lingue e tratti somatici degli alunni, ognuno libero di essere se stesso: Francois Begaudeau l’insegnante scrittore del libro sulla sua esperienza scolastica ed egli stesso interprete del film; gli alunni scelti nella scuola grazie ad un laboratorio creativo; il corpo docente; la scuola grigia imponente e blindata come un carcere. Palma d’Oro a Cannes 2008, “La Classe” rivaleggia con “Gomorra” di Matteo Garrone per la similarità dello stile, benché il secondo sia molto più potente e complesso. Unico neo del bel film di Cantet, il doppiaggio “Lost in Translation” che la distribuzione italiana ha deciso di attuare. Molto si perde credo, nella forzata replica di un film tratto dal vero, in cui le voci francese distorto da etnie differenti, le incomprensioni, i duelli verbali, formano la struttura portante sulla quale poggia tutta l’operazione. Nella versione italiana, inflessioni dialettali e discutibili interpretazioni di errori grammaticali e sintattiche ovviano professionalmente alla spontaneità degli “attori per caso” di Cantet e questo è male. Film da rivedere assolutamente in lingua originale sottotitolato.

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