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Tulpan

Regia di Sergei Dvortsevoy vedi scheda film

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La recensione su Tulpan

di ROTOTOM
8 stelle

Kazakistan, steppa sterminata e arida dove volgendosi a 360° nulla si interpone tra lo sguardo e un orizzonte talmente fedele al proprio nome da sembrare messo in bolla da un Dio artigiano e autistico . Sterpaglie e sabbia, pecore e cammelli. Qualche vortice di polvere.  Dopo l’orizzonte ancora nulla. In questo contesto in una sperduta capanna di pastoni nomadi distante un giorno di viaggio dalla capanna più vicina, Asa cerca di fare colpo  sui genitori di Tulpan, ipotetica futura sposa, nonché unica ragazza libera dell’intera steppa, raccontando della sua lotta con una piovra gigante mentre prestava servizio militare in marina. Il pegno d’amore, un lampadario (!) e per dote 10 pecore. Lei lo rifiuta perché Asa ha le orecchie a sventola.
Detta così farebbe felice Sacha Baron Cohen e il suo giornalista Kazako, Borat protagonista di un film indecente qualche tempo fa.
Invece non si vince la sezione Certain Regarde per caso, a Cannes.
Tulpan è un film di terrea realtà e favola lieve, poesia di un sogno di vita che si accontenta di una moglie e un gregge di pecore, un cammello come fuoriserie. Sogno scritto dietro il colletto della divisa da marinaio del giovane Asa, un puntino nella sterminata steppa che lo circonda.
Sogni che si scontrano con altri sogni, l’America, le donne pettorute delle riviste, le automobili, le notizie alla radio che parlano di inflazione e aria pulita, sogni che nell’altopiano frustato dal vento suonano grotteschi e fuori tempo. Il regista parla di tempo e spazio in straordinarie riprese in campo lungo che imprigionano i sentimenti nella contemplazione, nei rumori diegetici del vento, degli animali, della quotidianità umana  filmata con rispetto, mai con compatimento. Tulpan stessa è un sogno, come il suo nome (Tulipano) sbucato da chissà dove a ornare una terra arida in cui il nulla è la bellezza della natura nella sua forma più rarefatta.  Come colonna sonora il canto incessante di una bambina.  E poi un cammello in sidecar. Uomini e animali legati alla terra dalla necessità della sopravvivenza. Una respirazione bocca a bocca ad un agnello appena nato. La steppa immobile che attende chissà che cosa. Alternanze di messaggi, il regista è abile a veleggiare tra il  realismo documentaristico e le derive grottesche che si formano negli occhi degli spettatori per contrasto con l’estrema vita della steppa kazaka, senza trucchi, sguardo cinematografico fatto di silenzi e di grandi distese ripreso in campo lunghissimo, infinito. Sguardo al quale non siamo più abituati. Che i sogni rimangano tali poi, non ha importanza, in realtà ma anche a questo non siamo più abituati.

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